Esplosione in Ucraina, esperti di armi nucleari: “Siamo certi, è un esplosione nucleare” (VIDEO)
26/03/2017 – Esclusivo. Potenti esplosioni in un deposito di munizioni militari in Ucraina. Mentre siamo certi che questa era una detonazione nucleare a causa del classico botto flash bianco e shockwave seguito da fungo atomico, non sappiamo se questa fosse una detonazione intenzionale o alcune armi nucleari immagazzinate come parte di altre munizioni esplose. L’Ucraina si suppone che abbia rinunciato a tutte le armi nucleari nel 1990, ma abbiamo buone ragioni per credere che l’Ucraina possedeva illegalmente SS-21missili nucleari tattici a corto raggio. Gordon e Jeff hanno segnalato nel mese di gennaio che Tom Countryman era stato licenziato dagli Stati Uniti Dipartimento di Stato .
Tom Countryman (nella foto) è stato accusato di spionaggio nucleare , e licenziato da Rex Tillerson. Noi crediamo che Countryman stava coprendo il possesso illegale di armi nucleari tattiche dell’Ucraina. Forse la Russia ha fatto sabotare questo deposito di munizioni per distruggere armi nucleari dell’Ucraina, in caso affermativo, sembra che Trump ha dato il via libera Putin su questo.
C’è un retroscena anche qui. Si dice che l’Iran sia andato in Ucraina dopo il 9/11 ad acquistare la capacità nucleare. L’Iran aveva bisogno di una “assicurazione temporanea”, mentre il suo programma di armi nucleari esistenti sono stati anni di test di successo, un programma della CIA ha categoricamente dichiarato che è stata smantellata alla fine del 2003.
L’Iran ha cercato la capacità nucleare per vaporizzare un gruppo di portaerei americane con un vettore ucraino 550KT un’arma russa / termonucleare. Ci avevano dato prova della vendita e del trasferimento alcuni anni fa, ma la prova può essere falsificata. Ci avevano dato anche prove che l’Iran aveva i dispositivi, ma ha cercato, nel 2007, di liberarsi della responsabilità di avere armi nucleari. Il razionale fascicolo di indagine, su Bush / Blair, sull’attacco a Saddam e l’assassinio del dottor John Kelly era l’affermazione che l’Iraq aveva acquistato / rubato 3 armi nucleari sudafricane che sono scomparsi dalla custodia britannica in Oman nel 1990. Se non conosciamo questa storia, vedete un po cosa si può trovare ‘là fuori’. Se non si trova nulla, si scaverà molto per raccontare qulacosa su di essa. – Continua su FONTE
Treviso, giudice inseguito in auto: “Mi armo, lo Stato non c’è più”
25/03/2017 – Dopo che il 67enne Mario Cattaneo ha sparato e ucciso un ladro che stava tentando un furto nel suo locale si è riaperto il dibattito sulla legittima difesa. A intervenire nella discussione questa volta è un giudice trevigiano.
Con una lettera aperta indirizzata ai quotidiani veneti del gruppo Finegil, Angelo Mascolo racconta l’episodio che lo portato a una scelta drastica: “D’ora in poi sarò armato”, scrive. Il giudice spiega che qualche sera fa si trovava in auto quando ha deciso di sorpassare una macchina di grossa cilindrata che ha cominciato a inseguirlo e a dare colpi di abbaglianti. Poco dopo il giudice ha incontrato una pattuglia di carabinieri, ai quali gli inseguitori hanno detto che Mascolo era stato seguito “per esprimere critiche sul suo modo di guidare”. Il giudice non crede alle versione e si pone un problema: “Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d’ora in poi, che sarebbe successo se, senza l’intervento dei Carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare?”.
La lettera continua poi con una critica nel confronti dei colleghi giudici e dello Stato: “Se avessi sparato avrei subito l’iradiddio dei processi – eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo – da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente – ed è qui il grave errore – tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti”. Il problema della legittima difesa, continua Mascolo, “è un problema di secondo grado – accusa – come quello di asciugare l’acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature e, cioè, che lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorrazzano impunemente delinquenti di tutti i colori”. Per il giudice, conclude amaramente, “la severità nei confronti di questi gentiluomini è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma che lavoro a fare?”. FONTE
Calabria: Quattordici inchieste incombono sulla Regione
19/03/2017 – Fino a ieri esisteva un “problema Oliverio”, oggi esiste una “catastrofe Pd”. In queste ore se ne stanno (finalmente!) rendendo conto in Calabria e a Roma. Blande le contromisure messe in campo fin qui, tuttavia in queste ore le linee telefoniche tra i maggiorenti del partito democratico sono roventi. Gerardo Mario Oliverio non è più “solo” autoreferenziale ma si dimostra una scheggia impazzita. Un vertice istituzionale fuori controllo e per tale ragione irresponsabile.
Basta, a destare nuovi allarmi, la cronologia dell’ultima settimana con i tempi scanditi dalla incapacità di nominare, a tre anni dal suo insediamento, i direttori generali; dall’arbitraria proroga di quelli collocati in pensione; dalla disinvolta gestione di sempre nuovi e sempre diversi siti informatici; dall’assoluta opacità garantita al segretariato della Presidenza; dalle quotidiane violazioni dei rapporti che debbono disciplinare l’attività del governo regionale con quella del Consiglio.
Fin qui ci teniamo fuori dalle vicende giudiziarie che assediano l’operato della gestione Oliverio, ormai orientata, oggettivamente, a premiare quanti vengono attenzionati da gravi indagini della magistratura, piuttosto che prenderne le distanze. È quanto rimproverano, del resto, i “peones” al segretario regionale Ernesto Magorno. Non accettano che le regole fissate per loro, costate l’allontanamento della giunta regionale di Ciconte e Guccione e le dimissioni da presidente del consiglio regionale a Scalzo, vengano invece eluse per la dirigenza regionale e per le nomine dei commissari, citando da ultima quella di Domenico Sodaro a commissario del Parco delle Serre.
È chiaro a tutti, ed a questo punto anche i vertici regionali e nazionali del Pd non possono più mantenere la testa nella sabbia, che esistono situazioni, scelte, nomine e personaggi che appaiono inamovibili e inattaccabili nonostante cresca l’imbarazzo politico e istituzionale attorno a loro.
Raffaele Mauro è solo la sintesi di questo groviglio di interessi inconfessabili e di scelte dissennate e ingiustificabili. Lo è perchè la sua permanenza al vertice dell’Asp di Cosenza crea forte imbarazzo sul fronte giudiziario, essendo destinatario di almeno tre distinte inchieste. Lo è per l’esposizione mediatica, avendo trascinato Oliverio e la sua giunta sotto i riflettori dei media nazionali, coprendo tutti di ridicolo con la causa civile per lo stress che da impiegato dell’Asp rimediava, salvo poi diventare manager dello stesso ente. Lo è per i disinvolti rapporti con un segmento dell’avvocatura cosentina a disprezzo della demolita avvocatura interna all’Asp. Lo è, da ultimo, per aver segnato un punto di rottura tra giunta e consiglio regionale rifiutandosi di presentarsi davanti alla commissione Politiche sociali dove era stato convocato.
Eppure resta al suo posto. Quello di Raffaele Mauro, tuttavia, è solo uno dei tanti “dogmi” imposti da Oliverio anche a disprezzo delle leggi nazionali e regionali. Altro esempio è fornito da Pasquale Anastasi: da quando, il 31 dicembre, è stato collocato in pensione, l’ex direttore generale al Turismo lavora per la Regione Calabria ben più di quando risultava in servizio. Partecipa a fiere ed eventi all’estero, dove accompagna il presidente Oliverio ed altre dame; vola a Londra per trattare con i vertici della Ryanair; presenzia agli incontri più operativi e delicati che nel comparto cultura e turismo vengono tenuti presso la Cittadella.
Sulla carta esiste un direttore generale che risponde al nome di Sonia Tallarico, la sua nomina era provvisoria ed allo stato è anche caduta ma nessuno ne prende atto. Come nessuno prende atto, e provvede di conseguenza, alle nomine degli altri direttori generali. Sotto questi un esercito di dirigenti di settore attende che qualcuno dia loro le direttive previste dal piano ordinamentale. A completare il quadro arriva l’indagine della procura antimafia di Reggio Calabria che indaga il direttore generale Carmelo Salvino per reati che vanno dalla truffa alla frode, passando per il falso e la corruzione. Reati che avrebbe commesso da direttore generale dell’agricoltura. Ma Salvino è anche tante altre cose: per esempio presidente di Fincalabra. Dovesse scivolare, un terzo delle competenze regionali raggiungerebbe l’altro terzo nella attuale condizione di totale paralisi. Se si tiene presente che il rimanente terzo è costituito dalla sanità già commissariata, ecco consegnato il quadro di una Regione Calabria capace solo di appaltare beni e servizi ed aprire sempre nuovi siti e nuovi nuclei di informatizzazione che ormai, quando non si sovrappongono, realizzano conflitti.
E veniamo al capitolo inchieste giudiziarie. Al netto di quelle che riguardano le note vicende di voto di scambio, si tratta di inchieste che già fanno capolino nelle recenti operazioni condotte dalla Procura distrettuale di Reggio Calabria e da quella di Catanzaro, se ne contano almeno altre dodici e seguirle tutte diventa una impresa.
Due riguardano la sanità, intesa anche come dipartimento e presidenza della giunta regionale, ed hanno al registro degli indagati i manager Mauro a Cosenza e Benedetto a Reggio Calabria, entrambi si badi bene, nominati dalla giunta e non dai commissari. Altre due riguardano la gestione di Fincalabra, con riferimento alla mancata rendicontazione di somme impegnate per speculazioni finanziarie e quindi con finalità diverse da quelle dell’ente regionale. C’è poi l’indagine sulla gestione dei bandi per la stagione teatrale 2016, fanno finta di non ricordarlo ma l’indagine c’è e sono almeno sette le persone iscritte al registro degli indagati.
C’è l’indagine sulla gestione di Calabria Verde, che non ha certo concluso il suo percorso con l’arresto degli ex manager Furgiuele e Allevato, anzi da tali arresti ha tratto nuova linfa. C’è il selvaggio taglio boschivo all’interno del perimetro della Sila, autorizzato non si sa da chi, ma consumato con tutte le certificazioni richieste. Due inchieste riguardano, invece, la gestione dei servizi informatici attraverso gare che si sospetta siano state manipolate e pilotate in modo da far vincere chi doveva vincere. Recentissima, invece, l’apertura da parte della Procura di Catanzaro di altra inchiesta sul mancato rispetto delle prescrizioni riguardanti la dirigenza regionale impartite dal Mef (Ministero economia e finanze), oggetto di due segnalazioni alla Procura da parte dell’ufficio ispettivo dello stesso Mef e della Corte dei Conti. Altrettanto recente è l’indagine avviata dalla Procura di Cosenza nel settore della formazione professionale: fondi milionari elargiti a imprese che, a parere della polizia giudiziaria, non avevano i requisiti tecnici e, in due casi, rappresentavano vecchie aziende inquisite rivestite con nuove società aventi gli stessi referenti di quelle decotte. Da Cosenza torniamo a Catanzaro per altre due indagini, una pregressa e l’altra appena avviata. La pregressa riguarda le telefonate anonime partite da uffici della presidenza regionale e dirette ad un dirigente regionale che bloccava l’adozione di pratiche considerate illecite. Attraverso altra indagine della Procura antimafia di Reggio Calabria si sarebbe riusciti a individuare l’anonimo telefonista: un imprenditore reggino. Ma come avesse accesso notturno agli uffici della presidenza della Regione e quali fossero i motivi per i quali quelle pratiche non erano in regola con la a legge è ancora tutto da accertare.
Infine l’ostruzionismo che sarebbe in atto da parte dei vertici della Regione Calabria nei confronti dell’Ufficio regionale anticorruzione. A segnalarlo è proprio il vertice dell’Anac che informa la Procura di Catanzaro della impossibilità da parte del commissario regionale per l’anticorruzione Elga Rizzo a svolgere compiutamente il proprio dovere perchè dal segretariato regionale, quindi da un ufficio alle dirette dipendente del presidente Gerardo Mario Oliverio, solo una minima parte («non oltre il 20%») dei provvedimenti adottati viene trasmessa all’anticorruzione. E per stare sempre alla Procura di Catanzaro, sono in corso approfondimenti investigativi che riguardano il bando per i contributi sull’edilizia sociale, a cavallo tra vecchia e “nuova” giunta regionale.
C’è quanto basta per andare ben oltre una “questione morale” che ormai sembra interessi non più di tanto il Partito democratico. E infatti non di “questione morale” discutono in queste ore, preoccupati e affannati, i maggiorenti del Pd in Calabria e a Roma. Molto più pragmaticamente si interrogano sulla possibilità di gestire una situazione politico-istituzionale pericolosamente fuori controllo. – FONTE
Corruzione sulle forniture di macchinari per i malati terminali di oncologia all’Istituto tumori Pascale di Napoli.
08/03/2017 – Allucinante, Elia Abbondante è il direttore il Direttore della Asl Napoli 1 Centro finito agli arresti domiciliari nell’ambito dello scandalo sulle forniture per i malati di oncologia all’istituto Pascale.
La sua nomina per quel ruolo è stata decisa dal governatore De Luca a luglio 2016.
Proprio in quei giorni in Parlamento e in Regione Campania stavamo conducendo una battaglia contro la Legge che consentiva a De Luca di nominare a suo piacimento i direttori generali delle Aziende Sanitarie Locali e ospedaliere, senza avvisi pubblici e senza curarsi dei requisiti professionali. Il ministero della salute aveva anche riconosciuto che avevamo Ragione ma il Governo, l’unico che poteva stoppare quella Legge, decise di non fare ricorso.
I fatti oggi confermano che quella nostra battaglia era giusta e che gli effetti nocivi del governo Renzi si trascinano nel tempo. Su De Luca ogni aggiunta è superflua.
Terremoto al Pascale, ai domiciliari manager e imprenditori per forniture antitumorali. Corruzione e turbativa d’asta per le forniture di dispositivi medicali e macchinari nell’istituto tumori di Napoli, insomma per tutto ciò che fa riferimento ai tumori. Sotto i riflettori un appalto che va dal 2014 e 2015, per un volume di affari di due milioni di euro.
Sotto accusa. Arrestati ai domiciliari Francesco Izzo primario del reparto di oncologia interna, che si occupa di tumore al fegato, e sua moglie alla quale erano riconducibili le società di mediazione, anche se – dicono i pm – gonfiando il prezzo. Arrestati anche un informatore scientifico, un commercialista, e alcuni imprenditori. Ai domiciliari anche Elia Abbondante, che avrebbe dovuto controllare le procedure di acquisto e i bandi di gara, nella veste del direttore amministrativo del Pascale all’epoca dei fatti. Oggi Abbondante è il direttore generale dell’Asl Napoli 1 Centro. Oltre a Izzo e Abbondante, provvedimenti anche per Giulia di Capua (classe 1971), moglie di Izzo; il commercialista Sergio Mariani; ai domiciliari anche Marco Mauti e Marco Argenziano. Indagini coordinate dal pool dell’aggiunto D’Avino e dal pm Carrano e Woodcock, decisivi gli accertamenti del nucleo di Polizia tributaria del colonnello Giovanni Salerno. Tutti i professionisti coinvolti avranno modo di replicare alle accuse nel corso dell’inchiesta
L’inchiesta. Due i filoni ricostruiti dal procuratore Fragliasso. Il primo riguarda le ditte riconducibili a Izzo e Di Capua, che avrebbero beneficiato di appalto a trattativa diretta. Abbondante invece pur essendo a conoscenza della «cointeressenza tra ditte e chi indicava alcuni prodotti farmaceutici come infungibili e ad aggiudicazione diretta» non sarebbe intervento a spezzare questa trama. L’altro filone è relativo a una somma di denaro data a Izzo dalla Bayer per raddoppiare le forniture di un determinato farmaco che era prescritto dal dottor izzo per conto dell’ospedale Pascale. In questo scenario, l’informatica fiorenzano avrebbe trattato un accordo di 30mila euro per conto della Bayer, diecimila dei quali sarebbero stati dati a Izzo. Vicende da prendere con le molle in attesa della versione dei diretti interessati. Spiega il procuratore aggiunto Alfonso Davino: «C’è una sensazione di amarezza per il settore in cui si sono sviluppate queste attività e perché a distanza di venti anni e più si continua a parlare di farmaci. Da questa procura nasce la indagine sui farmaci e sulla farmatruffa della prima tangentopoli».
Il trucco per far lievitare i costi. Un ago comprato dal Pascale per il trattamento dei tumori al fegato dal costo di 2400 euro ma, con lo schema della trattativa diretta, viene venduto a 1500 euro con la trattativa pubblica. Per questo, dietro la commissione di farmaci, ci sarebbe la scelta della urgenza e della infungibilità che – nell’ottica della procura – avrebbe prodotto un costo economico lievitato per le tasche dei contribuenti campani.
Maxi sequestro ai coniugi . Sequestrati beni per circa due milioni di euro a carico dei coniugi Izzo-di Capua, soldi che corrispondono al valore complessivo delle commesse aggiudicate, a partire dal 2012, alle società riconducibili a Izzo e alla moglie, sulla scorta di quello che viene definito un «illecito schema negoziale». FONTE IL MATTINO
Perché il reddito universale piace tanto agli smanettoni dell’Ideologia Californiana?
27/02/2017 – C’è un filo che lega la Silicon Valley, l’aumento della mortalità tra i bianchi americani di mezza età, le capacità espressive di un filosofo tedesco dell’Ottocento e la vittoria di Donald Trump. È una rete di vetro — semitrasparente, tagliente ma fragile, bisogna muoversi con cautela.
Prima di tutto: il motto di Y Combinator è “Make Something People Want”.
Y Combinator nasce nel 2005 come incubatore di start up e si trova a Mountain View, Silicon Valley. Il suo core business consiste nel promuovere lo sviluppo di aziende attentamente selezionate: due volte all’anno, Y Combinator investe 120.000 $ in un centinaio di start up che, per tre mesi, si trasferiscono nella Valley e cesellano la loro offerta in vista del Demo Day, il giorno del giudizio in cui un pubblico attentamente selezionato decide quali di queste meriti una tonnellata di banconote. Negli ultimi dieci anni Y Combinator ha investito in più di novecento aziende, incluse Dropbox, Airbnb, Genius e Reddit. A un certo punto, però, è arrivato il 27 gennaio 2016, il giorno in cui una realtà nata e cresciuta occupandosi di start up ha iniziato a giochicchiare in un altro campionato: la macro economia.
In un post dal sobrissimo titolo, Basic Income, il CEO Sam Altman ha parlato di “qualcosa di nuovo”, ha parlato di un futuro in cui “la tecnologia continua a eliminare i lavori tradizionali”, ha parlato di quanto sembrerà ridicolo tra cinquant’anni che “usavamo la paura di non riuscire a mangiare per motivare le persone”. In tre parole, Altman ha parlato di Universal Basic Income (UBI). Un reddito di cittadinanza universale da distribuire, come fase beta, a un numero limitato di persone.
Cinque mesi dopo è stata annunciata la posizione del laboratorio; si chiama Oakland, e ci vive mezzo milione di persone. A una cinquantina di queste verranno erogati 1.500/2.000 $ al mese per un anno; un altro gruppo invece non riceverà uno scellino e verrà ugualmente monitorato. Il progetto dovrebbe iniziare entro il 2017: questo è tutto quello che è trapelato fino a oggi, grazie anche agli articoli di ArsTechnica, Guardian, Vox.
Oakland è la stessa città in cui mezzo secolo fa le Black Panther sperimentavano, tra le altre cose, la Free Breakfast for Children, un progetto la cui missione si può evincere dal nome. Nel giro di un anno venne garantita la colazione a più di diecimila bambini, pronti per andare a scuola con la pancia meno vuota del solito.
L’obiettivo di UBI è offrire un punto di partenza soprattutto a chi potrebbe essere nella posizione di continuare gli studi, cercare o creare il posto di lavoro più adatto alle sue caratteristiche e che, per questioni economiche, non se lo può permettere.
Come riportato dal Guardian, Dawn Philips — membro di un’organizzazione per i diritti dei lavoratori di Oakland — apre volentieri alla possibilità di un reddito minimo, ricordando però che la direzione del progetto dovrebbe essere nelle mani di chi conosce davvero i bisogni della base. Niente di nuovo. Gli oaklanders vivono un rapporto conflittuale con la Silicon Valley, sviluppatosi in anni di riqualificazione estrema e conseguenti sacche di povertà. Lo stesso Phillips ha definito Oakland “l’epicentro di una national gentrification epidemic”. Ed è proprio questo il motivo per cui è stata scelta da Y Combinator: una città scissa da un ampio divario socio-economico è il migliore laboratorio possibile.
A detta di Y Combinator, l’obiettivo di UBI è offrire un punto di partenza soprattutto a chi potrebbe essere nella posizione di continuare gli studi, cercare o creare il posto di lavoro più adatto alle sue caratteristiche e che, per questioni economiche, non se lo può permettere. È un tema che può interessare a un pubblico trasversale, conservatore e progressista: a entrambi i vecchi miliardari di Una poltrona per due. Viene considerato un vaccino sociale, un possibile rimedio alla povertà.
La Silicon Valley (tra i tanti, la Chase di Zipcar, Altman, il capo-ingegnere di Tesla, Andreessen) è innamorata di UBI. Cerchiamo di capire perché.
Affinità e divergenze
Quando si parla di precedenti illustri la stampa presenta sempre gli stessi esempi: villaggi indiani (che sono esclusi dal Primo Mondo), il Mincome della canadese Manitoba (che risale agli anni Settanta), il recente referendum svizzero (che è fallito) e, infine, la Finlandia. Senza dubbio quest’ultimo— insieme all’esperimento di YC — è il laboratorio più interessante, dato che sarà implementato da un governo nazionale. Ci si aspetta metodo e rigore su ampia scala, con venti miliardi di euro spalmati sul biennio. La situazione finlandese incapsula una forma acutizzata del mal occidentale, il continuo aumento dei freelance: a inventarsi un lavoro saranno sempre più persone, visto che siamo già entrati — de facto — in un’epoca in cui i lavori meno “creativi” sono minacciati dallatecnica. Ormai è un mantra: la continua accelerazione nel campo dell’intelligenza artificiale — con le ovvie ricadute in tema di automazione — rivoluzionerà il mondo del lavoro, creando la necessità di una rete di sicurezza per chi si trova occupato nelle mansioni a rischio già nei prossimi cinque-dieci anni.
Ci si trova di fronte all’ennesimo sottoprodotto della Ideologia Californiana ovvero, citando i nostri archivi, “quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley, [un] amalgama degli opposti [che] si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione.” Certo, la situazione è più complessa di così. Per quanto rimanga più che legittimo cercare di buttare acqua sul fuoco precisando come il lavoro in realtà stia soltanto cambiando forma, presupponiamo che un buon paper di Oxford valga qualcosa, e che grazie a questo paper si possa partire da un dato preciso: negli Stati Uniti, il 47% delle professioni è “ad alto rischio”, minacciato dall’automazione. Bene, detto questo: perché la Silicon Valley non se ne è uscita con niente di più originale del reddito di cittadinanza?
Secondo l’Economist, non è un caso che l’UBI piaccia agli smanettoni della Silicon Valley, dato che 1) si propone come una semplice, elegante linea di codice da sostituire a un pezzo di bad programming — questa misera realtà, così piena di poveri — e 2) ha tutti i connotati di un progetto utopico — gli uomini bianchi studiati, si sa, vogliono salvare il mondo. Aggiungo che 3) UBI potrebbe essere una comodissima fascia da arrotolare intorno alla testa, un ottimo escamotage per alleggerire il settore tech dal tanto chiaro quanto imminente problema d’immagine. Parlando di problemi. Sempre per l’Economist, attivare un reddito di cittadinanza stringerebbe ulteriormente la morsa fiscale e creerebbe un altro problema non da poco: chi non emigrerebbe in una nazione in cui vengono distribuiti mille dollari al mese? E se un paese si impoverisce, dove vanno a finire i contribuenti dal maggiore peso specifico?
Negli Stati Uniti, il 47% delle professioni è “ad alto rischio”, minacciato dall’automazione. Perché la Silicon Valley non se ne è uscita con niente di più originale del reddito di cittadinanza?
Ovviamente sul tema si è speso anche il solito Morozov, il quale — a Evgenij quel che è di Evgenij — ha esposto un paio di osservazioni molto interessanti. In estrema sintesi, è comprensibile che la Silicon Valley ci tenga particolarmente ad assemblare la bomba dell’UBI: dovesse compiere qualche mossa sbagliata, potrebbe esplodergli in faccia.
Per spiegare come, il giornalista bielorusso tira in ballo tre economisti italiani: Vercellone, Fumagalli, Lucarelli. La triade è attiva da anni sul fronte del capitalismo cognitivo, una teoria sviluppatasi negli ultimi due decenni e interessata a decifrare l’epoca in cui stiamo respirando, l’epoca in cui quando torni a casa in macchina ti accompagnano filari di impianti industriali dismessi e non riesci a spiegare che lavoro fai a tua nonna; l’epoca in cui il proliferare del lavoro cognitivo bilancia il declino della produzione. Come racconta il giornalista bielorusso, la triade non appoggia l’UBI sulla base di istanze sociali o morali, ma su basi economiche: il mercato del lavoro potrebbe addentrarsi in una turbolenza strutturale che farebbe sembrare gli ultimi otto anni la sigla di un cartone animato, e abbiamo bisogno di soluzioni. Se queste soluzioni aiutano la libera circolazione delle idee, ben vengano. Di nuovo, qual è il problema, quindi?
Secondo Morozov, il capitalismo cognitivo 1) non prevede l’abolizione “dello stato sociale, l’unica istituzione che, investendo in sanità ed educazione, ci dà la libertà di essere creativi” e 2) esige la messa a punto di un sistema tributario più aggiornato, impegnato a tassare anche l’utilizzo di marchi e brevetti, o l’esclusiva sui big data che finisce per ostacolare la democratizzazione dell’informazione. Non è difficile capire perché la Silicon Valley voglia tutelarsi da uno scenario del genere, cercando di cambiare il gioco prima che si passi al livello successivo. Non è pagare le tasse o risarcire miliardi di utenti per le loro informazioni che hanno reso grandi Amazon o Google.
UBI piace a destra perché è un incentivo per le imprese, piace a sinistra perché è un tentativo di giustizia sociale e — aggiunge il Guardian — “libera le persone dalla dipendenza di un lavoro salariato”: una glossa che non sarebbe piaciuta a Marx (eccolo, è arrivato). Il lavoro è una cosa bella. Il lavoro è una cosa bella?
Il lavoro modella ogni giorno il senso del giorno stesso, il lavoro — nelle parole della Arendt — somiglia a un miracolo: “il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. Nelle parole della filosofa, l’azione è “l’improbabilità infinita che si verifica regolarmente”. Parafrasando Padoa Schioppa quindi, il lavoro è bello. Soprattutto se sei caucasico, vivi nell’emisfero boreale e hai potuto studiare fino ai vent’anni inoltrati.
Con l’aumentare delle letture intorno al tema, cresce un torpore populista, e con lui il conseguente rigurgito: non è difficile avere un’idea ottimista/costruttiva/utopistica dell’equilibrio lavoro-tempo libero quando sei un milionario baciato dal sole californiano che si sposta da un cubo di vetro a una sfera geodetica guidando una berlina elettrica da novantamila dollari. Si può cogliere il senso dell’operazione, l’ideale positivista dietro alla volontà di alleviare le persone dal travaglio del pane e del tetto in modo da scindere il loro nocciolo creativo, visionario, eccetera. Più in alto del cielo, però, c’è lui: il trimestre. Se nella Silicon Valley continuano a sfornare laptop che pesano come la carta velina da utilizzare su social network sempre più pervasivi indossando gli Oculus Rift, una ragione ci deve essere. Vogliamo anche le rose tridimensionali.
Trump Springsteen
Ubi può piacere a destra e a sinistra, si è detto. Il problema è che negli Stati Uniti “destra” e “sinistra” non esistono, e i loro corrispettivi cisatlantici sono stati polverizzati dall’ascesa di Donald Trump.
Lo diceva Nate Silver, il dio dei Masìa, già questa estate: “analizzando dove le professioni sono più a minacciate dall’automazione risulta come le aree che hanno votato repubblicano nelle ultime presidenziali sono più a rischio, fattore che suggerisce come l’automazione possa diventare una questione decisiva”. In realtà l’ultimo aggettivo era “partizan”, faziosa, ma decisiva – alle idi di novembre 2016 — è la migliore delle scelte lessicali. Trump infatti sembra avere vinto dove ci sono più persone occupate nei cosiddetti routine jobs, le professioni che non includono esclusivamente la sfera “manuale” — come metalmeccanici, camionisti eccetera — ma anche quella più cognitiva, come cassieri e personale di assistenza al cliente.
Non era un segreto. All’inizio di quest’anno, nel suo discorso allo State of the Union — di fronte 31 milioni di spettatori — Obama aveva posizionato la paura dell’automazione in cima alle preoccupazioni economiche dei suoi cittadini. In quella moltitudine, tra i più attenti, c’era il nuovo Presidente Eletto.
Sembrano passati decenni dalla settimana in cui si derideva la scelta scenografica del comizio di Trump in una fabbrica della Pennsylvania, quel muro di rottami alle spalle del candidato Repubblicano, quando negli stessi giorni la Clinton parlava in un tech hub di Denver, circondata dalla pioviggine delle tastiere made in Apple.
“Made in Apple”: ecco un altro punto decisivo del candidato Repubblicano. Sempre a gennaio, dalla Liberty University (Virginia), Trump dichiarava “costringeremo Apple a costruire i loro dannati computer in questo Paese”, esaltando gli avversari dell’outsourcing e lasciando perplessi i centri di informazione tech. La domanda nell’aria era qualcosa come “ah sì? Spiegaci come convincerai Tim Cook a riprogettare i piani produttivi e la catena di distribuzione”, domanda a cui ora possiamo togliere le virgolette, e affidare a chi di dovere. Il tema è complesso, la risposta di Trump — sorpresa! — no: alle aziende che spostano la produzione all’estero, “faremo pagare una tassa del 35%”. Trump, a parole, vuole sgrassare la Rust Belt, rimettere in moto il settore secondario che si studiava alle elementari. Purtroppo — per lui? per noi? per la Clinton? — negli ultimi vent’anni il sistema economico è cambiato-per-sempre, innovando il mondo del lavoro, applicando una patina brillante per chi vive nei servizi avanzati, virando al nero la realtà disperata di chi è occupato nei routine jobs.
Entrambi i Candidati aspiravano a creare posti di lavoro. Tutto lascia pensare che ad avere la visione più… secchiona, in termini macro-economici, siano stati i perdenti.
Questo articolo vuole formulare delle domande — nella speranza di rinfocolare il memento mori di questo putrido populismo osceno affidandosi alla memoria di una classe più o meno agiata che sembra essere vittima di una amnesia globale transitoria riguardo le sue origini — e non si illude di fornire delle risposte precise: diventa necessario quindi includere l’opinione di Jeff Guo che, sul Washington Post, precisa come per quanto si sapesse da tempo che Trump avrebbe fatto leva sulla classe operaia bianca, è doveroso ricordare la crescita dell’economia statunitense nell’ultimo quadriennio, la disoccupazione calante (viene spontaneo ribattere che se si mette sul tavolo l’abbassamento della disoccupazione, bisogna precisare di quale occupazione si sta parlando in stati come Kentucky, Wisconsin, West Virginia).
In ogni caso, entrambi i Candidati aspiravano a creare posti di lavoro. Tutto lascia pensare che ad avere la visione più… secchiona, in termini macro-economici, siano stati i perdenti: resta il fatto che i vincenti — sempre che non cambino programmi — si troveranno ad affrontare una congiuntura che va in direzione ostinata e contraria. Sempre secondo Nate Silver infatti, i “non-routine jobs account for all — yes, all — of the job growth since 2000”: i lavori routinari, invece, sono diminuiti dal 51% al 45% in meno di quindici anni. Secondo Moshe Vardi (l’ennesimo esperto di intelligenza artificiale proveniente da un’università USA), l’impatto principale di questo smottamento è stato l’aumento della mortalità tra gli uomini (bianchi e poco scolarizzati) di mezza età a causa di “suicide and substance abuse”, un trend profondamente inquietante se confrontato al resto delle grandi superpotenze.
Il nostro occhio europeo è troppo educato e focalizzato — comprensibilmente — sulle aberrazioni del fenomeno Trump per comprendere che se c’era un candidato di “sinistra”, con trecento virgolette, forse non era Hillary Clinton.
L’improbabilità infinita che si verifica regolarmente
“La Silicon Valley trascina verso la civiltà persino le nazioni più barbariche, grazie al rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, grazie al continuo progresso delle comunicazioni. […] La Silicon Valley costringe tutte le nazioni a far proprio il modo di produzione della Silicon Valley, se non vogliono affondare; la Silicon Valley le costringe a introdurre esse stesse la cosiddetta civiltà, cioè a diventare Silicon Valley. In una parola, la Silicon Valleysi costruisce un mondo a sua immagine e somiglianza.”
Il paragrafo che avete appena letto è tratto dal Manifesto del Partito Comunista: al posto di Silicon Valley, c’era “borghesia”. Il giochino può continuare. Riguardo UBI: “Ogni società si è finora fondata, come abbiamo visto, sulla contrapposizione fra classi di oppressori e di oppressi. Ma per opprimere una classe, occorre assicurarle condizioni tali da permetterle almeno di sopravvivere in schiavitù.” Oppure, riguardo all’intelligenza artificiale: “La Silicon Valley ha come per incantesimo prodotto mezzi di produzione e di scambio tanto potenti, è come l’apprendista stregone incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate.”
Come già scritto su Musk, in quella fetta di mondo i più reazionari riescono a trasformarsi in rivoluzionari, e viceversa. Se nel Manifesto viene chiarito un punto, è che lo status quo non va seppellito; verrà seppellito dalle stesse libertà che lo ossessionano, la libertà d’azione, la vita activa (titolo italiano della Human Conditionarendtiana), la dimostrazione che un’azione concertata, organizzata, può cambiare il mondo.
I fili della Silicon Valley vengono tirati (anche) da nouveaux riches che 1) non vogliono, ragionevolmente, perdere quello che hanno costruito 2) devono tutto allo spirito della vita activa — anche se nel 2016 i suoi megafoni si chiamano Ted, Medium, YC: sono conservatori e progressisti, rivoluzionari e reazionari. L’uomo attivo è l’ideale bersaglio dello Universal Basic Income: un uomo sempre pronto a prendere la forma della società che lo circonda, prono al cambiamento perpetuo, lontano dagli equilibri fissi di un passato idealizzato, affamato di mobilità, sviluppo, progresso. Di nuovo, non è una novità. Ma lo sviluppo forzato non produce solo buoni frutti. Ci sono anche sviluppi distorti, costretti, e quello che non fa profitto va represso: la semplicità è elegante, la complessità è rumore di fondo. Il rumore di fondo ostacola il passaggio tra A (presente) e B (futuro).
L’uomo attivo è l’ideale bersaglio dello Universal Basic Income: un uomo sempre pronto a prendere la forma della società che lo circonda, prono al cambiamento perpetuo, lontano dagli equilibri fissi di un passato idealizzato, affamato di mobilità, sviluppo, progresso.
Riguardo al Manifesto: è stato liberatorio leggere direttamente la fonte e non il miliardo di analisi accademiche. Di fatto sono andato alla fonte perché mi è tornata in mente una frase che appuntai su una di quelle buffe sedie-tavolino universitarie, durante la lettura di un certo passaggio, quel passaggio introduttivo in cui si chiarisce come — a causa dell’avvento della stessa borghesia che mi aveva dato il privilegio di scaldare quella sedia-tavolino — “i nuovi rapporti invecchiano prima di potersi strutturare”, e c’era quella frase insomma, una cicatrice: all that is solid melts into air.
Una frase che deve essere piaciuta molto anche a Marshall Berman che, Marxista con la m maiuscola, l’ha utilizzata per titolare un’opera subito canonizzata.
Il libro di Berman risale al 1982; la sensazione di imminente collasso “funzionale” di cui discute già dal titolo — ed elevata a cifra stessa della modernità, una modernità che violenta la fisica trasformando l’entropia in stasi — ha portato a conclusioni radicali pensatori estremi, e in parte bolliti, come Nick Land, intervistato da Valerio Mattioli: “la logica espansiva del capitalismo, la sua continua rincorsa alla crescita, la sua economia ‘del desiderio’ e il suo stato di ‘crisi perenne’, sono tutti ingredienti che spingono in direzione di quel collasso – ‘meltdown’ – che renderà l’essere umano una presenza inutile e obsoleta.” Se questo secolo dovesse dare ragione a Land, confermando il meltdown — c’è chi la chiama Singolarità — sarà troppo tardi per ricordargli che la profezia era stata già scritta nel 1847: all that is solid melts into air. “L’energia dello sviluppo borghese farà scomparire la classe che gli ha regalato la vita. […] Il capitalismo verrà sciolto dal calore delle sue stesse energie incandescenti.” O qualcosa del genere.
Scrivo di stupri a danno della fisica; la fisica, però, prende sempre l’ultima parola.
Il calore passa dalle cose calde alle cose fredde, e lo fa “per caso”. La differenza fra passato e futuro esiste solo quando c’è calore. Per capire dove stiamo andando, dobbiamo misurare l’assenza di quello che sta sublimando. FONTE
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Una brutta verità viene alla luce: Navi di veleni affondate dalla Ndragheta
15/02/2017 – Qualche scheletro comincia a uscire dagli armadi chiusi a chiave dei Palazzi romani, dove rimane custodito un pezzo di storia d’Italia ancora tutta da scrivere: l’affondamento nei nostri mari delle famigerate navi a perdere, meglio note come navi del veleni. La Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta da Alessandro Bratti ha chiesto e ottenuto il via libera alla desecretazione di alcuni documenti in mano all’allora Sismi, il Servizio (il Servizio segreto militare, oggi Aise). Nulla che metta repentaglio la sicurezza nazionale, intendiamoci, solo carte in cui si conferma quanto Legambiente, insieme ad altre associazioni, investigatori coraggiosi e cittadini, denuncia sin dall’inizio degli anni Novanta. Flussi impressionanti di rifiuti industriali, compresi quelli radioattivi e in mano a enti pubblici, provenienti spesso pure dall’estero, che grazie al ruolo svolto da strutture criminali per decenni sono stati spediti in giro per il mondo e seppelliti in mille modi nel nostro paese, avvelenandolo. Un sistema che si è retto anche grazie al ruolo di intermediazione svolto dalle mafie, che hanno offerto i loro stessi territori per gli sversamenti. Anche il mare è finito per essere vittima di questo schema. Secondo diverse testimonianze, al largo delle nostre coste si sarebbero consumati naufragi pianificati a tavolino sotto la regia dei capi mafia, soprattutto afferenti alle locali di ‘ndrangheta, con quel minimo di tritolo che abbondava nei loro arsenali e che serviva ad aprire facili brecce negli scafi. L’abisso avrebbe custodito ogni segreto, senza nessuno scrupolo. “Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare?” dice un boss al suo interlocutore durante una conversazione intercettata dalla Dda di Reggio Calabria, “Pensa ai soldi, che con quelli il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte…”. Affondamenti, sia detto per inciso, che qualche investigatore ben informato, off record, sostiene siano ancora in atto.
Le navi del Mistero (navi dei veleni) – Reality La7
In un documento ufficiale della Dia, solo nel nell’arco temporale 1995-2000 sono stati registrati ben 637 affondamenti sospetti nei mari del mondo, 52 nel nostro Mediterraneo. Sospetti perché avvenuti con condizioni meteo perfette e con il mare piatto, senza lanciare May day, con rotte e carichi anomali rispetto ai documenti ufficiali, con equipaggi che appena messi in salvo facevano perdere le loro tracce. Del destino di quei natanti se ne interessavano solo le compagnie di assicurazione, come i Lloyd’s, che dovevano sborsare i premi assicurativi, e per questo in quei naufragi ci ha sempre sentito puzza di bruciato.
Ora, uno dei documenti desecretati dalla Commissione comprende una lista di 90 navi affondate nel Mediterraneo tra il 1989 e il 1995 in mano ai Servizi e legati a indissolubilmente a “presunti traffici di rifiuti tossici e radioattivi”. L’elenco, dicono le carte, era stato spedito alla procura di Reggio Calabria, alla Presidenza del Consiglio (Governo Dini) e al ministero della Difesa, ma rimase in qualche cassetto. Perché? Non sorprende affatto che in quell’elenco ci fossero anche i nomi delle 27 navi sulle quali stava indagando Natale de Grazia, vera anima del pool istituito dalla procura reggina per indagare su quegli affondamenti, morto per avvelenamento proprio nel 1995, proprio durante uno dei viaggi legati a quelle indagini. Guarda caso, con la sua morte tutto si fermò. Tra le navi attenzionate da De Grazia, la motonave Rigel, inabissatasi il 21 settembre del 1987 a largo della coste reggina di Capo Spartivento e per la quale un processo ha definitivamente accertato l’affondamento doloso, e la Aso, colata a picco il 16 maggio del 1979 al largo di Locri, senza dimenticare lo spiaggiamento della motonave Rosso dalle parti di Amantea, era il 14 dicembre del 1990. Monitorando il mare calabrese, la Capitaneria di Porto, nel 2011, censì l’esistenza in quei fondali di 288 relitti, anche se di prove dell’esistenza di rifiuti radioattivi non se ne sono mai avute. Ancora oggi, i pescatori devono stare attenti a dove calare le reti.
Le navi dei veleni 1_2 – (documentario Current Tv)
Ricapitolando, ci sono pochi dubbi sull’esistenza del fenomeno “navi dei veleni”, che fu orchestrato per sopperire alla esigenza delle industrie di smaltire economicamente i propri scarti con il chiaro appoggio di parte del mondo politico e istituzionale e di pezzi deviati dei servizi segreti, che almeno fino a certo punto (metà anni Novanta) agirono per coprire i traffici, non per denunciarli, come ha ammesso lo stesso ex presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti Gaetano Pecorella. Così come sappiamo che Natale De Grazie, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono uccisi perché provarono a cercare la verità fino in fondo. Se questa è la storia, rimane ancora da scrivere la verità giudiziaria, spezzettata in mille rivoli e resa inservibile, scientificamente, nei tribunali, almeno fino a quando non si recupererà un corpo del reato, la pistola fumante. Si sanno perfettamente le coordinate del punto di affondamento della Rigel, per esempio, perché non si comincia da lì? – FONTE
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Gli italiani si rovinano mentre i privati lucrano: spendono per le slot machine 300 volte più che per i libri
10/02/2017 – La mattina in classe. La sera a scommettere soldi fino a tardi. Noia e slot-machine. L’avvicinamento tra scuola e luoghi del gioco d’azzardo sembra rendere bene. Stasera, un mercoledì qualunque tra le undici e la mezzanotte, è strapieno di ragazzini e ragazzi da spennare. I minorenni si accalcano intorno alle “ticket redeption”, gli apparecchi mangiasoldi per bambini che in Italia hanno invaso i centri commerciali: macchine della fortuna che incassano monete e, quando si vince, sputano metri di cartoncini. I premi li hanno pensati proprio così: metri di scomoda carta in modo che siano ben visibili.
Scandalo SuperEnalotto: la Ndrangta riciclava le vincite al gioco del SuperEnalotto
Avvolti come piccoli Rambo nelle cartucciere, i vincitori si mettono poi in coda al “ticket eater”, il mangia biglietti che dopo molti secondi e qualche lampo di luce restituisce un voucher (accessorio sempre più diffuso nella nostra società). Ed ecco il punteggio totale della vincita da incassare: di solito un minuscolo, inutile oggetto di plastica made in China del valore di pochi centesimi, per il quale ogni baby giocatore ha però speso fino a 10 euro. Gli studenti maggiorenni appena usciti dal cinema multisala saltano invece i preliminari. E, sotto la sguardo del buttafuori senegalese, si infilano direttamente nella porta a vetri del “Luckyville”, la sala del gioco per adulti. Domani mattina non hanno lezione?
Più facile essere colpiti da un fulmine che vincere al gioco
Siamo a Lissone, provincia di Monza e Brianza, lungo la superstrada che da Milano sale a Lecco. Qui la rivoluzione post industriale ha già demolito il mito del lavoro, della fatica, del risparmio: vent’anni fa nessun impiegato, nessun agricoltore, nessun meccanico brianzolo e nemmeno i loro figli avrebbero usato così i loro soldi. Adesso li vedi fino a notte fonda. Giovani e meno giovani, uomini e donne. Più uomini che donne. Da come sono vestiti, non se la passano al massimo. C’è un’asimmetria spaventosa tra il dominio delle macchine e la sottomissione solitaria dei giocatori. File di dita illuminate dagli schermi battono svogliate sul tasto play. Sono nuovi operai di una catena di montaggio retribuita al contrario: pagano per far andare la linea. Ma non si danno per vinti. E, nella monotonia ipnotica dei gesti, continuano a bussare alla stessa illusione.
Gioco d’azzardo, vittoria M5S: enorme conflitto d’interesse, questione Giorgetti
RECORD ITALIANO
Sono loro e quelli come loro, dal Friuli alla Sicilia, ad aver buttato nel gioco d’azzardo novantacinque miliardi in un anno. Nel 2016 l’Italia ha battuto il record dei record, uno schiaffo alla crisi. Fanno la bellezza di 7,9 miliardi al mese, 260 milioni al giorno, quasi 11 milioni l’ora, 181 mila euro al minuto: cioè il 4,7 per cento del nostro Pil. È come se ogni persona, neonati compresi, avesse puntato e magari perso 1.583 euro. Ci siamo bevuti molto più del fatturato annuale di Mercedes auto (83,8 miliardi), o di Amazon (sempre in euro, 83,6 miliardi) e perfino della Boeing che costruisce e vende aerei nel mondo (90,2 miliardi).
Lotto, scommesse ai cavalli, bingo, poker? Svaghi passati di moda. Più della metà delle puntate, com’era prevedibile, è stata bruciata nella solitudine degli apparecchi mangiasoldi. Secondo i risultati anticipati dall’agenzia specializzata “Agipronews”, 26,3 miliardi li hanno inghiottiti le famigerate slot-machine, che incassano monete e pagano vincite fino a cento euro. E 22,8 miliardi le videolotterie, che deglutiscono banconote e restituiscono fino a cinquemila euro ma, in caso di jackpot, anche oltre. Risultato: quasi 50 miliardi in contanti, il 2,7 per cento del Pil.
Prendiamo l’Abruzzo, dove turisti e residenti muoiono sotto le valanghe perché nessuno riesce a pulire le strade di montagna quando nevica. Gli abruzzesi non hanno spazzaneve efficienti, ma hanno a disposizione 11.154 slot-machine: una ogni 119 abitanti. È il primato europeo, condiviso con il Friuli Venezia Giulia. Eppure sia il numero di spazzaneve, sia il numero di slot-machine con i relativi contratti di concessione dipendono sempre da enti dello Stato. C’è qualcosa che non funziona nella testa delle istituzioni, se siamo arrivati a questo punto. – FONTE
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Reggio Calabria, immigrazione: La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini
07/02/2017 – È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell’Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare.
In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni.
Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. Il video:
In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall’intervento delle Forze dell’Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l’intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. FONTE
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Il patto tra politica e ’ndrangheta per i fondi Ue destinati ai poveri
03/02/2017 -Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri lo descrive come «un comitato d’ affari» messo in piedi per appropriarsi dei fondi europei destinati ai più bisognosi; il suo vice Giovanni Bombardieri precisa che si è trattato di un «patto tra pubblica amministrazione e criminalità organizzata per la gestione clientelare dei finanziamenti». Protagonisti principali: un potente politico locale, la famiglia di ‘ndrangheta più influente della zona e un drappello di funzionari ritenuti coinvolti nell’ imbroglio.
È la storia svelata dall’ indagine condotta dai carabinieri del Ros e dalla Guardia di finanza che ieri ha portato in carcere l’ ex assessore al Lavoro e alle Politiche sociali della Calabria durante il governo di centrodestra, Nazzareno Salerno (attuale consigliere regionale che in questa veste ha partecipato due anni fa all’ elezione del presidente della Repubblica), insieme ad altre otto persone.
LA ‘NDRANGHETA IN PARLAMENTO, OPERAZIONE MAMMA SANTISSIMA
Tutti accusati, a vario titolo, di corruzione e altri reati – con l’ aggravante del metodo mafioso – per avere dirottato i soldi stanziati dall’ Unione europea per concedere micro-crediti a famiglie in difficoltà economiche. Secondo inquirenti e investigatori una parte sono finiti all’ ex assessore, un’ altra alla società che avrebbe dovuto gestire i finanziamenti, e un’ altra ancora verso un fondo di investimento in Svizzera considerato «assai nebuloso», sul quale sono in corso accertamenti. Una vicenda dove si mescolano potere e mafia locale, malaffare, malavita e qualche paradosso.
A cominciare dal fatto che i quasi due milioni di euro di stanziamenti comunitari sono stati affidati, dall’ assessorato guidato da Salerno, a una Fondazione chiamata «Calabria Etica». La quale non aveva i requisiti necessari a gestirli e dunque ha passato la pratica a una finanziaria che si sarebbe dovuta occupare di erogare i sussidi. Invece i fondi hanno preso altre strade, e in carcere sono finiti sia l’ ex presidente di «Calabria Etica» (commissariata dal nuovo governo regionale guidato da Gerardo Oliverio) che l’ amministratore della società incaricata.
E ancora. Per convincere un dirigente regionale riottoso a seguire le direttive del «comitato d’ affari», è sceso in campo, tra gli altri, un dipendente di Equitalia con un intreccio di parentele, conoscenze e relazioni personali che lo fanno assomigliare più a un boss che a un semplice impiegato dell’ agenzia di riscossione delle imposte. Dietro il quale si nasconde forse l’ essenza più profonda di questa storia.
Lui si chiama Vincenzo Spasari, ha 55 anni, ed è sposato con la sorella di Antonio Virgilio, definito «personaggio di rilievo legato alla cosca Mancuso», cioè uno dei clan di ‘ndrangheta più importanti della provincia di Vibo Valentia. Per dimostrarlo i carabinieri sono andati a ripescare una foto del 1988 scattata durante la festa di matrimonio di un rampollo dei Mancuso, in cui Virgilio è seduto allo stesso tavolo con il «padrino» Pantaleone Mancuso detto Scarpuni e un anziano capomafia di Isola Capo Rizzuto. A volte le immagini sono eloquenti quanto una fedina penale.
Ma un altro matrimonio, molto più recente, aiuta a svelare la caratura di Spasari. Sua figlia Aurora, il 14 settembre scorso, si è sposata a Nicotera con Antonio Gallone, arrestato un anno prima per coltivazione di sostanze stupefacenti e figlio di Giuseppe Gallone, ritenuto dai magistrati «contiguo alla consorteria mafiosa dei Mancuso».
Furono nozze rumorose, perché dopo la cerimonia gli sposi salirono su un elicottero e atterrarono sulla piazza Castello di Nicotera, «previa interruzione del traffico stradale con le transenne del Comune». Dopo un rinfresco tornarono all’ elicottero e volarono verso il banchetto nuziale. Esibizione che fece scalpore, per la quale sono stati inquisiti sindaco, comandante dei vigili e dirigente dell’ Ufficio tecnico del Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose. È stata la terza volta in quindici anni.
Spasari incontrò il dirigente della Regione considerato ostile al «comitato d’ affari» in un vivaio dove le telecamere del Ros hanno registrato l’ incontro. Con lui c’ erano l’ assessore Salerno e altri «amici» catalogati più o meno vicini al clan Mancuso, e dopo l’ anomala riunione il funzionario si convinse a seguire le indicazioni ricevute.
«Che brutti ricordi mi state facendo…», ha detto ai pubblici ministeri che lo interrogavano sul contenuto di quel colloquio. Secondo i pm si trattò di un’ estorsione: «Che un dipendente di Equitalia sia in condizioni di imporre la volontà di un assessore regionale nei confronti di un alto dirigente è possibile solo in forza del potere criminale che egli, in quel contesto, è chiamato a rappresentare». – FONTE
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