Larve che mangiano la plastica, al Fermi si progetta il futuro
08/01/2020 – Ogni anno, a livello mondiale, vengono prodotte circa 80 milioni di tonnellate di polietilene, un tipo di plastica molto difficile da degradare: ad esempio, un sacchetto fatto di questo materiale, impiega circa 100 anni per decomporsi, diventando un pericolo per l’ambiente e gli animali che lo abitano, dato che frammentandosi riesce a diffondersi nell’ecosistema, contaminando il suolo e le acque.
Il polietilene viene usato principalmente per gli imballaggi e rappresenta il 40% dei prodotti plastici usati in Europa. Nonostante molte nazioni abbiano già proibito i sacchetti di plastica (ognuno di noi ne utilizza in media 230 all’anno) la cattiva gestione dell’intero ciclo di raccolta, riciclo e riuso dei rifiuti, produce 100.000 tonnellate di residui.
Per capire quanto sia grave il problema dell’inquinamento dovuto alla plastica, basti pensare, per esempio, ai danni causati dal Pacific Trash Vortex: si tratta di un enorme accumulo di spazzatura galleggiante nell’Oceano Pacifico, composto per la maggior parte da plastica, di cui non sono ancora note le dimensioni esatte, anche se alcune stime si attestano tra i 700.000 e i 10 milioni di km², per un totale di più di 100 milioni di tonnellate di detriti.
Un bruco comunemente usato come esca dai pescatori, potrebbe essere la chiave per risolvere il danno ambientale prodotto dai materiali plastici: una biologa italiana, Federica Bertocchini, ha infatti scoperto, per puro caso, che la larva della tarma della cera (Galleria Mellonella) riesce a mangiare e a degradare il polietilene che, come dicevamo, è uno dei tipi di plastica più diffusi.
La tarma maggiore della cera è un lepidottero appartenente alla famiglia Pyralidae, e infesta gli alveari nutrendosi appunto di cera d’api. La dottoressa Bertacchini, ricercatrice dell’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria (Csic) e apicultrice per passione, rendendosi conto che i suoi alveari erano infestati da questo parassita, aveva iniziato a ripulirli, depositando momentaneamente i bruchi all’interno di un sacchetto di plastica. Al suo ritorno dal lavoro lo sconcerto si è trasformato in sorpresa, quando si è accorta che i bruchi erano riusciti a liberarsi divorando la plastica di cui era composto l’involucro: la ricercatrice si è subito messa in contatto con Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge,programmando un esperimento.
Un centinaio di larve di Galleria Mellonella sono state poste vicino a una busta di plastica e, dopo appena 40 minuti, sono comparsi i primi buchi. Dopo 12 ore la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione che i ricercatori hanno giudicato estremamente rapido: altri microrganismi capaci di digerire la plastica, come alcuni batteri, nell’arco di una giornata riescono infatti a divorarne al massimo 0,13 milligrammi.
Il risultato della ricerca, condotta dall’Università di Cambridge in collaborazione con l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria, è stato pubblicato sulla rivista Current Biology.
Si tratta ora di capire come questo bruco riesca a mangiare la plastica. Gli scienziati hanno provato a dare una risposta.“Sono animali che si cibano della cera d’api. E la cera è un ricco complesso di molecole diverse, che però contiene un legame analogo a quello che sostiene la robusta struttura molecolare del polietilene: una catena di atomi di carbonio che si ripete” spiega la Bertocchini. “Dal punto di vista evolutivo, ha senso che il baco riesca a nutrirsi di plastica”. Il meccanismo metabolico preciso sarà oggetto di un prossimo studio. “Per ora con i nostri esperimenti abbiamo capito che la degradazione della plastica non avviene solo per la semplice azione masticatoria – e quindi meccanica – del baco, ma proprio per un processo chimico. Abbiamo infatti spalmato sul polietilene un impasto di Galleria Mellonella, notando che la degradazione ha luogo”.
“Se alla base di questo processo chimico ci fosse un unico enzima, la sua riproduzione su larga scala, utilizzando le biotecnologie, sarebbe possibile”, ha osservato Bombelli. “La scoperta – ha aggiunto – potrebbe essere uno strumento importante per liberare acque e suoli dalla grandissima quantità di buste di plastica finora accumulata”.
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