Ambiente e salute

La trasparenza che non c’e’: i misteriosi costi della Politica

By admin

April 21, 2015

Aprile 2015 – «Misteriosi e non accessibili»: sono sassate, le parole del «rapporto Cottarelli» per spiegare i troppi dubbi sui canali attraverso cui i soldi seguitano ad arrivare alla cattiva politica. Sassate che mandano in pezzi la bella vetrina luccicante dove era stata esposta agli italiani l’abolizione del finanziamento pubblico. Ma come: neppure gli esperti scelti dal commissario incaricato dallo Stato di scovare le escrescenze da rimuovere con la spending review han potuto scavare fino in fondo? No. Carlo Cottarelli l’aveva buttata lì nell’intervista a Beppe Severgnini mentre già stava tornando al suo ufficio a Washington: «Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura». Il dossier «numero 5» sui costi della politica, tenuto in ammollo un anno (con spiritati inviti ad agire «entro fine febbraio 2014») accusa: «Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi». Non solo «l’eterogeneità della contabilità regionale ha reso molto difficile svolgere stime accurate» ma, appunto, «restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica». Testuale. Vale per le Fondazioni dai nomi più altisonanti che, in assenza di regole chiare, sono ripetutamente coinvolte in pasticci troppo spesso dai risvolti giudiziari. Vale per i privilegi figli di altre stagioni e accanitamente difesi come le prebende ai giornali di partito, le agevolazioni postali (0,04 euro a lettera!) che si traducono «in un credito di Poste Italiane nei confronti del Tesoro per 550 milioni di euro», o l’Iva sulla pubblicità elettorale al 4 per cento, «ovvero la stessa aliquota vigente per i beni di prima necessità». Vale infine per le agevolazioni fiscali più generose concesse a chi regala soldi a questa o quella forza politica invece che, ad esempio, ad una onlus impegnata nell’assistenza ai malati terminali: «Non appare evidente il motivo per cui ai finanziamenti privati ai partiti debba essere riconosciuto un regime di favore rispetto alle altre associazioni». Per non dire di norme che sembrano studiate apposta per sollevare fumo.

Un esempio? Il comma 3 dell’articolo 5 dell’ultima legge sul finanziamento pubblico dove, in una brodaglia di 342 parole e tecnicismi si spiega che il nome di chi dona fino a centomila euro l’anno a un partito «con mezzi di pagamento diversi dal contante che consentano la tracciabilità» va reso comunque pubblico sul sito web del partito stesso. Ma solo nel caso «dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso». Evviva la trasparenza… Eppure l’ex commissario ai tagli batte e ribatte lì: trasparenza, trasparenza, trasparenza. «La pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Quindi, salvo le rare e ovvie eccezioni che riguardano la sicurezza, «tutto dev’essere disponibile online ». Tutto. Dalla banca dati dei costi standard a quella dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. E sempre lì torniamo. Alla necessità assoluta di offrire ai cittadini la possibilità di leggere i bilanci. Leggerli sul serio: la vera trasparenza non può essere alla portata dei soli specialisti in grado di capire le più acute sottigliezze da legulei. Se è vero, come scriveva un secolo fa Max Weber, che lo Stato «cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico», è fondamentale per noi, che abbiamo un enorme problema di corruzione, aprire le finestre perché ogni contratto sia finalmente trasparente. E leggibile. Perché è lì, come hanno dimostrato decine di casi, che si annida la serpe del finanziamento occulto dei cattivi imprenditori ai cattivi politici. Scardinando le regole della sana economia, facendo lievitare i costi e imponendo, dice la Corte dei Conti, «una vera e propria tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini». Lo sapevamo già prima del rapporto Cottarelli? Certo. Colpisce, però, leggere su un documento ufficiale lo sfogo di chi, dopo essersi visto affidare dallo Stato la missione di studiare le storture di un sistema ancora corrotto dalla cattiva politica, spiega di aver dovuto fare i conti con ostilità enormi. Basti leggere, oltre ai già citati, questo passaggio firmato dal gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon, che confessa di non essere proprio in grado di fornire dati precisi, ad esempio, sulle buste paga reali di governatori, assessori o consiglieri: «La difficoltà a ricostruire una banca dati affidabile per i costi del personale politico, incontrata anche in questo rapporto, dipende (oltre che dalla presenza della diaria) dalla moltiplicazione delle indennità, che gonfiano le retribuzioni e rendono poco significativa la retribuzione del singolo consigliere per la stima della spesa complessiva»… «Misteriosi e non accessibili»: sono sassate, le parole del «rapporto Cottarelli» per spiegare i troppi dubbi sui canali attraverso cui i soldi seguitano ad arrivare alla cattiva politica. Sassate che mandano in pezzi la bella vetrina luccicante dove era stata esposta agli italiani l’abolizione del finanziamento pubblico. Ma come: neppure gli esperti scelti dal commissario incaricato dallo Stato di scovare le escrescenze da rimuovere con la spending review han potuto scavare fino in fondo? No. Carlo Cottarelli l’aveva buttata lì nell’intervista a Beppe Severgnini mentre già stava tornando al suo ufficio a Washington: «Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura». Il dossier «numero 5» sui costi della politica, tenuto in ammollo un anno (con spiritati inviti ad agire «entro fine febbraio 2014») accusa: «Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi». Non solo «l’eterogeneità della contabilità regionale ha reso molto difficile svolgere stime accurate» ma, appunto, «restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica». Testuale. Vale per le Fondazioni dai nomi più altisonanti che, in assenza di regole chiare, sono ripetutamente coinvolte in pasticci troppo spesso dai risvolti giudiziari. Vale per i privilegi figli di altre stagioni e accanitamente difesi come le prebende ai giornali di partito, le agevolazioni postali (0,04 euro a lettera!) che si traducono «in un credito di Poste Italiane nei confronti del Tesoro per 550 milioni di euro», o l’Iva sulla pubblicità elettorale al 4 per cento, «ovvero la stessa aliquota vigente per i beni di prima necessità». Vale infine per le agevolazioni fiscali più generose concesse a chi regala soldi a questa o quella forza politica invece che, ad esempio, ad una onlus impegnata nell’assistenza ai malati terminali: «Non appare evidente il motivo per cui ai finanziamenti privati ai partiti debba essere riconosciuto un regime di favore rispetto alle altre associazioni». Per non dire di norme che sembrano studiate apposta per sollevare fumo. Un esempio? Il comma 3 dell’articolo 5 dell’ultima legge sul finanziamento pubblico dove, in una brodaglia di 342 parole e tecnicismi si spiega che il nome di chi dona fino a centomila euro l’anno a un partito «con mezzi di pagamento diversi dal contante che consentano la tracciabilità» va reso comunque pubblico sul sito web del partito stesso. Ma solo nel caso «dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso». Evviva la trasparenza… Eppure l’ex commissario ai tagli batte e ribatte lì: trasparenza, trasparenza, trasparenza. «La pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Quindi, salvo le rare e ovvie eccezioni che riguardano la sicurezza, «tutto dev’essere disponibile online ». Tutto. Dalla banca dati dei costi standard a quella dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. E sempre lì torniamo. Alla necessità assoluta di offrire ai cittadini la possibilità di leggere i bilanci. Leggerli sul serio: la vera trasparenza non può essere alla portata dei soli specialisti in grado di capire le più acute sottigliezze da legulei. Se è vero, come scriveva un secolo fa Max Weber, che lo Stato «cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico», è fondamentale per noi, che abbiamo un enorme problema di corruzione, aprire le finestre perché ogni contratto sia finalmente trasparente. E leggibile. Perché è lì, come hanno dimostrato decine di casi, che si annida la serpe del finanziamento occulto dei cattivi imprenditori ai cattivi politici. Scardinando le regole della sana economia, facendo lievitare i costi e imponendo, dice la Corte dei Conti, «una vera e propria tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini». Lo sapevamo già prima del rapporto Cottarelli? Certo. Colpisce, però, leggere su un documento ufficiale lo sfogo di chi, dopo essersi visto affidare dallo Stato la missione di studiare le storture di un sistema ancora corrotto dalla cattiva politica, spiega di aver dovuto fare i conti con ostilità enormi. Basti leggere, oltre ai già citati, questo passaggio firmato dal gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon, che confessa di non essere proprio in grado di fornire dati precisi, ad esempio, sulle buste paga reali di governatori, assessori o consiglieri: «La difficoltà a ricostruire una banca dati affidabile per i costi del personale politico, incontrata anche in questo rapporto, dipende (oltre che dalla presenza della diaria) dalla moltiplicazione delle indennità, che gonfiano le retribuzioni e rendono poco significativa la retribuzione del singolo consigliere per la stima della spesa complessiva»… – di Gian Antonio STELLA