Ambiente e salute

Parassiti di stato, ecco la lista completa: poltrone e regali tramandati ai figli

By admin

May 14, 2015

14/05/2015  – C’è Verdini jr che toglie le ganasce alla sua auto, la famigerata bat-caverna di Moratti e il leggendario ‘Trota’ Bossi con i suoi titoli di studio. E poi ci sono quelli, tanti, che grazie al ruolo dei genitori ottengono poltrone importanti e regali a cinque cifre C’è da dire che almenoTommaso Verdini, figlio del (già) plenipotenziario forzista Denis, stavolta ha fatto proprio tutto da solo. L’altra sera a Firenze, ha liberato il suo suv Mercedes in divieto di sosta dalle ganasce messe dai vigili, le ha caricate in auto ed è ripartito allegro per la sua serata con gli amici. La denuncia per furto aggravato, se l’è conquistata in piena e attiva autonomia. Il che tutto sommato salta agli occhi: perché invece spesso, nella dolente e vischiosa storia dei figli dei politici che affiorano agli onori delle cronache, compare un che di passivo e di fatale. La prole, soprattutto nei racconti dei genitori, pare a volte poco più che mera destinataria: di posti di lavoro, di favori, di regali, di carriera politica, di preoccupazioni, oggetto in generale dei pensieri altrui, siano di mamma e papà, o degli amici loro. Ma in ogni caso, sempre meritevole di stare dove sta, ci mancherebbe. Capolavoro di passività è il caso Lupi. Laureato al Politecnico di Milano con 110 e lode, Luca Lupi, figlio del ministro Maurizio, si vede per esempio recapitare un Rolex da 13 mila euro. Glielo manda con tanti complimenti l’ingegner Stefano Perotti, socio di Ercole Incalza, il capo della centrale operativa delle grandi opere al ministero delle infrastrutture: insomma uno che conosce papà. Così pure, due mesi dopo, Luca viene spedito, via Incalza, da Perotti e infine dal genero di costui, Giorgio Mor, dal quale lavora per il palazzo dell’Enel a San Donato Milanese, 1.300 euro netti al mese per un anno. Ma insomma, lui si è laureato, è il padre che ha telefonato. Perché i figli so’ ‘n piezz’ ‘e core, in nessun caso definibili “pirla”, come ha fatto il papà del ribelle no-expò. Ma, prima ancora, sono oggetto di timori e preoccupazioni. Studiano, sì, ma ce la faranno? Il genitore fa quel che può, e del resto, se potente, per poco che faccia, fa molto. “Dico che quello oggi ha fatto trent’anni”, si sfogava Angelo Balducci col costruttore Diego Anemone, parlando del suo primogenito Filippo: “Io per carità non voglio nemmeno confrontarmi con voi. Ma io dico che tu, a trent’anni, eri già capo di un piccolo impero. Questo non c’ha manco un posto da usciere tanto per essere chiari. Permetterai che uno è un po’ incazzato». Poi, se come ha sostenuto il magistrato dell’accusa nel processo sulla cricca, Anemone si dà da fare per aiutare il figlio di Balducci, che vuoi, vien da sé. Lo stesso Tommaso Verdini, del resto, all’epoca fa finì sui giornali perché, a margine dell’inchiesta sulla P4, venne fuori che usava l’imprenditore amico di papà, Riccardo Fusi, come una sorta di agenzia di viaggi last minute. Peccato veniale. Tommaso deve fare il test d’ingresso alla Bocconi? Chiama Fusi e lui prenota subito all’Hotel Cusani di Milano. Invece di una stanza, al ragazzo ne danno due: «Volevo sapere se anche quella è sul tuo conto». Figurarsi: «Mettile sul mio conto». Stesso schema a Forte dei Marmi, dopo la maturità, sempre in Versilia («siamo in otto»), a Milano prima di partire per Ibiza («sì anche il garage è gratis»). Anche in questo caso Verdini junior mostra una certa autonomia. Ma una volta è la mamma a chiamare: «Quell’ebete di mio figlio arriva alla Malpensa alle undici e mezzo… ecco volevo mandarlo in albergo a Milano. La suite, quella che hai dato a Denis». Mio figlio, quell’ebete. Perché nella famosa storia delle colpe che ricadono, di rado è davvero chiaro quali ricadano su chi: a volte tornano indietro, tipo boomerang, da figlio a genitore, ma di solito è un condominio. Le colpe, o diciamo le responsabilità, stanno in affido congiunto. Si rimpallano. Quando la ministra Cancellieri, da Guardasigilli, fu chiamata a rispondere in Aula per quelle telefonate di interessamento verso la figlia Ligresti, allora detenuta ma amica di famiglia, ritagliò uno spazio per chiarire anche la posizione di suo figlio Piergiorgio Peluso, bocconiano e banchiere dalla carriera brillante, che aveva lavorato 12 mesi come direttore generale della Fonsai (ricevendone peraltro oltre tre milioni di buonuscita): “Tengo a sottolineare che quando lui ha avuto quell’incarico, io ero una tranquilla signora in pensione, che mai avrebbe pensato di diventare ministro”, disse in Parlamento. La frase serviva a chiarire che Piergiorgio non era là in quanto figlio di: è adesso che lui è indagato per bancarotta proprio per il fallimento della Fonsai, si immagina Cancellieri almeno sollevata di non essere più ministro. Sennò sai che titoli. Sempre a proposito di rimpalli, c’è per esempio in risalto, adesso che Vincenzo De Luca corre per la regione Campania, la simpatica tegola del suo primogenito Piero, già componente dell’assemblea nazionale del Pd, che è indagato per concorso in bancarotta fraudolenta nell’inchiesta sul fallimento del pastificio Antonio Amato. Secondo i magistrati, De Luca junior, che fa l’avvocato, avrebbe ricevuto 23mila euro da una immobiliare controllata dal pastificio, sotto forma di biglietti aerei. Peraltro, secondo le dichiarazioni rese ai pm da Giuseppe Amato, mentre il padre faceva il sindaco di Salerno, De Luca junior era consulente legale, presso il pastificio, per una variante urbanistica da approvare per trasformare l’area dell’ex stabilimento in un centro residenziale, materia cioè che atteneva al comune. Vai a capire: De Luca senior comunque tira dritto, come al solito. E’ poi finita con un patteggiamento (sei mesi, convertiti in 49 mila euro di multa), invece, la storia della Bat casa di Gabriele Moratti, esplosa quando ancora sua madre Letizia faceva il sindaco di Milano. Gabriele – a quanto pare senza i permessi necessari – aveva trasformato 447 metri quadri di laboratorio a uso industriale, in una mega residenza avveniristica: si parlava di un bunker sotterraneo cui si accedeva attraverso una botola motorizzata, un poligono di tiro, una piscina, forni, sala fitness, vasca idromassaggio, bagno turco. Non è vero niente, protestò Gabriele all’epoca: “E’ tutta una colossale montatura usata contro mia madre. Noi siamo legati da un profondo e reciproco affetto, ma io faccio la mia vita e rivendico la mia indipendenza”. Altrettanto fece poi lei: “Mio figlio è indipendente, francamente non mi occupo delle questioni tecniche relative alla sua casa, comunque ognuno si assumerà le sue responsabilità”. Ad ogni buon conto, due consiglieri del Pd fecero recapitare alla sindaca una maschera di Batman, e in ogni caso – anche se non per questo – la sua carriera in politica finì. E ognuno si prese le sue responsabilità. Ma insomma, il più delle volte, indistinguibili le responsabilità, la faccenda è un impasto di meriti e familismo di potere, in una linea di continuità nella quale è difficile, sia da dentro che da fuori, individuare un punto di frattura. In un paese dove si trova lavoro per “segnalazione” nel 78 per cento dei casi (dato Eurostat 2012), anche per chi, per politica o potere in genere è immerso in un mondo nel quale nessun favore, nessun incarico è disinteressato anche quando sia penalmente irrilevante, è più che altro una questione di gradi: a volte la coincidenza spicca come un neon fosforescente, altre sbiadisce quasi del tutto. Quando la figlia dell’allora ministra del Lavoro Elsa Forneroe dell’economista Enrico Deaglio, Silvia, finì sui giornali in quanto professore associato nella stessa università nella quale i genitori erano ordinari, e responsabile della ricerca in una fondazione finanziata dalla Compagnia di San Paolo, di cui la mamma era stata vicepresidente, esplosero illazioni. E, insieme, l’indignazione della ministra: “Mia figlia ha lavorato duro e si è guadagnata tutto quel che ha”. Quando Fabrizio Indaco, figlio di Manuela Repetti, compagna di Sandro Bondi, fu assunto alla Direzione generale del cinema, proprio quando il forzista – e, diciamo, patrigno – era ministro della Cultura, la mamma sbottò: “Ma insomma in attesa di laurearsi dovrà pure guadagnare qualcosa”. Questione di gradi, di sensibilità. Meno facile, per non dire peggio ancora se il padre (o la madre) si mette in testa di far sì che il figlio segua le sue orme. Su questo Renzo Bossi è caso di scuola, interessante al limite anche dal punto di vista psicologico, oltreché giudiziario. Dopo aver fatto del suo faticoso diploma un caso nazionale, infatti, Bossi pare si mise in testa di farne “se non il mio delfino, almeno la trota”, affibbiandogli peraltro quella condanna di soprannome che poi non s’è levato più. Renzo diventò consigliere regionale in Lombardia ad appena 21 anni, e con ben 12 mila voti. Dovette totalizzare in due anni, dal 2010 al 2012, quasi sedicimila euro di rimborsi-spese che il magistrato ha poi definito “non inerenti” per chiarire al padre che lui per la politica non era tagliato: caramelle, gomme da masticare, spazzolino da denti, mojito, campari, negroni, patatine, Fonzies, barrette ipocaloriche giornali, sigarette, un iPhone, auricolari, un computer, un libro di Pansa. E’ stato rinviato a giudizio a fine aprile, insieme con altri 55 consiglieri del Pirellone. E’ in buona compagnia, insomma, ma non altrettanto blasonata. Il figlio di Bossi resta lui. Meglio è andata, alla fine, a Cristiano Di Pietro figlio di Antonio. Lui siede ancora in consiglio regionale in Molise, dove è stato eletto al secondo mandato, nella stessa tornata elettorale del 2013 nella quale suo padre è stato eliminato. Prima della fine, l’assicurazione: “Non è un altro Trota, ha fatto la gavetta, lui”, chiariva Antonio per difendersi dall’accusa di familismo. Certo poi, anche Cristiano a un certo punto si mise nei guai: finì nell’indagine sulla Global Service, per certe sue telefonate al provveditore alle opere pubbliche in Campania e Molise, nelle quali pare chiedesse incarichi e consulenze per la sua rete amicale. Ma la faccenda finì in un bicchier d’acqua, e lui, prima indagato, fu archiviato. E chissà se magari adesso sarebbe disposto a fare staffetta col padre: si appresta a far così Tommaso Barbato, che corre (col centrosinistra) per il consiglio regionale campano dove per cinque anni (col centrodestra) è stato seduto suo figlio, Francesco. Raro, ma talvolta accade anche questo. FONTE