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L’ex Presidente delle Repubblica di nuovo nei guai: Ingroia svela tutte le sue telefonate nella trattativa stato-mafia

By admin

November 11, 2015

11/11/2015 – Ingroia e le telefonate di Napolitano “Vi svelerò il contenuto”. Giacomo Amadori di Libero quotidiano ha intervistato Ingroia, che ha svelato il contenuto delle intercettazioni di Napolitano durante la trattativa stato-mafia…

 

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Pochi giorni fa è arrivata la prima sentenza del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia ed è stata un’ assoluzione per Calogero Mannino. L’ex ministro ha parlato di una persecuzione lunga 25 e a chi gli chiedeva se il suo sia stato un processo politico ha risposto che solo Ingroia aveva un’ impostazione di quel tipo… «Potrei dire che da un politico navigato come Mannino il giudizio sul mio “spessore politico” lo prendo come un complimento, quanto all’ accanimento sarebbero troppi i persecutori, giudici compresi. La verità è un’ altra: sono le prove dei suoi rapporti con i mafiosi che hanno inseguito Mannino per tutti questi anni, confermate persino dalla Cassazione che lo ha assolto. Ciò non toglie che sia stato giudicato innocente in modo definitivo dal concorso esterno e assolto in primo grado per la trattativa. Questo gli va riconosciuto, però non esageri».

In che senso? Un uomo innocente non può neppure lamentarsi dopo 25 anni di processi? «Intendo che comunque la procura, pur sconfitta nella sua impostazione originaria di cui non disconosco la paternità, può contare su un bicchiere mezzo pieno: infatti quella di Mannino è stata una assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove, non per la loro mancanza. In più il giudice, con quel tipo di decisione, ha ammesso che la trattativa c’ è stata e che costituisce reato».

Mannino ha anche detto che a voi interessava non tanto la verità quanto l’ opera teatrale del “guitto” Marco Travaglio, in cui vi «impartiva gli indirizzi relativi al processo». «Battuta per battuta noi pm potremmo lamentarci del fatto che siano stati realizzati spettacoli su indagini che ci sono costate sacrifici e sudore e che per questi non abbiamo preso neanche le royalties».

Se è per questo Travaglio ha messo la copertina a una sua requisitoria e l’ ha contrabbandata come un proprio libro. Il direttore del Fatto almeno in questo caso le avrà riconosciuto una percentuale? (Sorride) «Non riuscirà a farmi litigare con Marco. È uno dei pochi amici che mi sia rimasto nel vostro mondo. Posso dire che grazie a lui ho avuto la soddisfazione di far conoscere il mio lavoro al grande pubblico».

Ultimamente alcuni giornali che l’ hanno sempre sostenuta, come La Repubblica, sembrano averla un po’ abbandonata. «È vero che ho perso per strada più di un amico e questo è accaduto a causa del processo sulla trattativa che era scomodo non solo a destra ma anche a sinistra».

Quale critica al suo operato l’ ha infastidita maggiormente? «Il fatto che l’ inchiesta sui rapporti Stato-mafia sia stata descritta come un mio personale trampolino di lancio verso la politica, mentre è stato un lavoro serio in quanto summa di quasi 20 anni di indagini sulle collusioni della politica con la mafia per cercare verità e giustizia sulla morte di uomini dello Stato traditi da quello stesso Stato. Oggi posso riconoscere che fosse una sfida forse troppo ambiziosa e dall’ esito incerto vista la complessità anche giuridica della materia, difficile da sostenere in un’ aula di giustizia».

Però a prendere le pernacchie per una simile scommessa adesso sono rimasti i suoi ex colleghi, Nino Di Matteo in testa, mentre lei, come dice Mannino, è «fuggito»… «Io non sono abituato a fuggire dai miei processi come dimostrano i procedimenti contro Marcello Dell’ Utri e Bruno Contrada, entrambi condannati definitivamente, dopo anni di indagini che ho seguito fino in fondo. Nel caso della trattativa ero diventato non solo un parafulmine, ma, a un certo punto, persino un peso. Attiravo continue polemiche che si scaricavano negativamente sul processo. Per questo ho ritenuto fosse utile, conclusa l’ indagine, farmi da parte».

Veniamo alla sua nuova vita. Nei giorni scorsi ha riservato parole dure al giudice romano Caterina Brindisi, che non ha accolto una sua istanza: ha scritto che per la signora è «evidentemente meglio non sentire, non vedere, non sapere». Da avvocato sta rivedendo la sua opinione sui magistrati? «In realtà mi è capitato anche da pubblico ministero di trovare giudici che non volessero né sentire, né vedere, né sapere. Un meccanismo di autodifesa corporativa che scatta spesso quando ci sono di mezzo magistrati o altri pezzi delle istituzioni».

Ogni riferimento al procedimento Stato-mafia è puramente casuale… Ritiene che in quel processo siano stati protetti pezzi di istituzioni? «Più che nel processo lo si è fatto fuori dal processo perché quel processo non si celebrasse mai. E un ruolo lo hanno però svolto anche la magistratura associata e il Csm a colpi di procedimenti disciplinari nei confronti dei pm che doverosamente facevano quelle indagini».

Con il senno del poi insisterebbe ancora ad opporsi alla richiesta del Quirinale di distruzione immediata dei nastri con le intercettazioni tra il presidente Giorgio Napolitano e l’ ex ministro Nicola Mancino? «Per me la legge va applicata comunque anche di fronte alla richiesta di commissione di un abuso proveniente dalla più alta carica dello Stato, perché la richiesta di distruzione immediata era soltanto un abuso».

Non sono stati dello stesso parere i giudici della Corte costituzionale. «Come ha detto il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky quella era una sentenza politica, perché, aggiungo io, quei giudici avevano come una pistola puntata alla tempia: se avessero smentito il Capo dello Stato sarebbe scoppiata una gravissima crisi istituzionale che avrebbe potuto portare alle dimissioni del Presidente della Repubblica».

Spengo il registratore. Mi confida che cosa diceva Napolitano di tanto grave ai suoi interlocutori? «Non è ancora arrivato il momento, anche se, probabilmente, un giorno lo racconterò: credo che «tutte le verità» di uno Stato democratico vadano svelate ai cittadini. Ma non in un’ intervista».

In che modo pensa di farlo? «Magari attraverso un romanzo, un mezzo che mi permetterebbe di usare certi filtri per raccontare una realtà che va ben aldilà della più fervida immaginazione».

Ha già un’ idea per il titolo? «Potrebbe essere “Caro Giorgio come stai?”. Come le pare?».

Torniamo al suo nuovo mestiere di avvocato. Lei aveva giurato che non avrebbe mai assistito mafiosi e corrotti e invece sta difendendo i presunti complici di Massimo Ciancimino, condannato in via definitiva per riciclaggio del patrimonio mafioso del padre (l’ ex magistrato è in piedi e mi guarda in tralice). «Niente di incoerente perché nessuno dei miei assistiti è incriminato per fatti di mafia. In più aggiungo che sono convinto dell’ innocenza di questi imputati che sono rimasti stritolati da quello che io definisco il sistema Cappellano».

Ovviamente sta parlando dell’ amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara, sotto indagine a Caltanissetta per corruzione e altri reati… Perché dice che sono stati schiacciati da questo sistema? «Su tutti i giornali è scritto che dall’ inchiesta nissena emerge che Cappellano Seminara aveva l’ interesse a enfatizzare se non addirittura a inventare l’ origine “mafiosa” di certi patrimoni, specie se di ingente valore, per ottenere incarichi e onorari che venivano poi parametrati sul valore della aziende confiscate. Un sistema che gli consentiva di elargire incarichi e prebende a famigliari e amici dei magistrati che spesso erano quelli che lo avevano nominato amministratore e gli avevano liquidato lauti onorari».

Uno di quei magistrati è Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione. Sul suo conto in queste settimane sono emerse intercettazioni imbarazzanti. La sensazione è che ci sia un’ Antimafia che più che gli ideali persegua interessi particolari. «Per anni abbiamo cercato di convincere i cittadini che combattere la mafia non solo è giusto, ma è anche utile. Non immaginavo che dei professionisti di questa lotta avrebbero cercato sì l’utile, ma per se stessi, come sta emergendo».

Non trova che sia quanto mai attuale l’ invettiva di Leonardo Sciascia contro i professionisti dell’ Antimafia? «Sciascia sbagliò obiettivo, colpendo Paolo Borsellino, ma ebbe un’ intuizione profetica».

In tanti citano Giovanni Falcone e Borsellino. Quali sono, secondo lei, i veri eredi e chi, invece, si fa bello con i loro nomi a sproposito? «Per me non ci sono veri eredi, ma ci sono troppi aspiranti eredi».

Faccia qualche nome… «L’ elenco è troppo lungo e non basterebbe lo spazio di questa seppur lunga intervista. E mi riferisco anche a qualche importante ex magistrato oggi in politica».

Per alcuni il processo in corso a Roma contro i presunti complici di Ciancimino rischia di trasformarsi in una specie di resa dei conti tra lei e il procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone, suo ex collega a Palermo. «Non credo nella personalizzazione della giustizia, però è noto che negli anni io e Pignatone ci siamo trovati più volte su posizioni diverse, come in questo caso. Pignatone è “affezionato” ai procedimenti che riguardano la famiglia Ciancimino. Si era occupato prima del padre e poi del figlio. Persino quando era procuratore di Reggio Calabria e venne fuori l’ intercettazione bufala di Massimo Ciancimino che si vantava di fare da padrone di casa nel mio ufficio a Palermo. La cosa bizzarra è che in questi anni sono stato accusato io di essere troppo affezionato a Ciancimino junior, mentre sono stato l’ unico a farlo arrestare quando ero procuratore aggiunto a Palermo».

Lei è indagato dalla procura del capoluogo siciliano per abuso d’ ufficio per il suo ruolo di commissario della E-servizi, società partecipata dalla Regione. Si sente un perseguitato dalla giustizia? «Per altre cose sì, ma non è questo il caso, visto che la procura aveva già chiesto l’ archiviazione. Il procedimento è rimasto aperto a causa di una contestazione della Corte dei conti. Però, siccome i giudici contabili un mese fa mi hanno prosciolto, confido che la cosa si chiuda anche al palazzo di giustizia».

È sotto inchiesta, per calunnia, pure a Viterbo. Non ha mai paura di finire vittima di uno sbaglio dei suoi ex colleghi togati? «Sinceramente sì. Soprattutto oggi che faccio l’ avvocato mi rendo conto di tanti errori giudiziari. Le inefficienze del sistema sono più gravi di quanto non sospettassi da magistrato. Nel caso del procedimento che sto seguendo a Roma, per esempio, anche se dimostreremo l’ errore degli inquirenti, ci troveremo di fronte a danni irreversibili con società fallite, uomini ammalati e imprenditori rovinati».

Ci sono delle furbizie che i pm usano per incastrare gli indagati? Mi risulta che non di rado i nomi sul registro generale vengano iscritti il più tardi possibile per allungare i termini delle investigazioni…«Ci sono le astuzie dei difensori, ma anche quelle dei sostituti procuratori. E ora che sono dall’ altra parte della barricata ho il vantaggio rispetto ai miei colleghi avvocati di poter smascherare certi espedienti furbetti».

Me ne può svelare uno? «Ci sono i cosiddetti stralci a catena che permettono con un gioco di scatole cinesi di tenere aperto un filone d’indagine facendolo emigrare da un fascicolo in scadenza a un altro».

Forse anche da una procura all’altra? «Qualche volta è accaduto pure questo».

Da pm che cosa ha sbagliato? C’è un errore che si sente di ammettere? «Con il senno del poi mi sono sempre chiesto se si potesse fare di più per prevenire la morte di due uomini».

Di chi sta parlando? «Di Borsellino e del giudice Luigi Lombardini. Del primo ero stato collega a Palermo e del secondo mi sono occupato da pm: era accusato di complicità in estorsione per il sequestro di Silvia Melis. Paolo è stato ucciso dalla mafia e da altro, dentro a un intrigo di Stato e avremmo potuto «proteggerlo» meglio. Lombardini si è suicidato dopo un mio interrogatorio. Stavamo andando a perquisire la sua stanza, dove poi trovammo documenti importanti a suo carico, e lui stava camminando davanti a me. All’ improvviso, con un balzo felino, si è chiuso nel suo studio e dopo pochi attimi abbiamo sentito un colpo di pistola. Sono episodi che non si dimenticano e che ti cambiano».

È meglio la vita da magistrato o quella da avvocato? «L’ esistenza blindata del pm antimafia è infernale. Di quegli anni mi mancano solo… le intercettazioni (sorride e attende la reazione del cronista, nda). Sto scherzando, ma non troppo. Da avvocato accertare la verità è molto più difficile, perché si combatte con armi spuntate contro una magistratura che spesso è un muro di gomma rispetto alle istanze della difesa».

Almeno le mancherà il suo vecchio ruolo da star? «Devo essere onesto: era una vita molto stancante, così fitta di impegni». (Squilla il telefono e Ingroia tuba: «Amore, sono ancora impegnato nell’ intervista, raggiungimi in studio»).

Mi scusi, ma lei è sposato? «No, ho una nuova compagna».

La domanda sorge spontanea: si cucca di più da legale o da magistrato? «Non posso rispondere, Giselle è gelosissima. E poi l’ ho conosciuta nel “trapasso” tra le due carriere».

Ripensando a quel periodo, rientrerebbe in politica, candidandosi a premier, come fece nel 2013? «No, in quelle condizioni avrei fatto meglio a restarmene in Guatemala. Però grazie a quella scelta sbagliata oggi mi ritrovo a fare l’ avvocato e il nuovo lavoro mi piace molto».

Eppure per il prossimo 28 novembre ha indetto quella che ha pomposamente chiamato «l’ assemblea nazionale» del suo partito. Pensa di non presentarsi?

«Vuole farmi fare il congresso da solo? Azione civile è un movimento piccolo, ma combattivo. Non lo posso abbandonare».

Non si chiamava «Rivoluzione civile»? Anche lei è nato incendiario ed è finito pompiere? «Mi sono reso conto che la rivoluzione non si può fare in due mesi. Partiamo dall’ azione e vediamo se si può fare la rivoluzione».

Perdoni la battuta: vi incontrerete in una cabina telefonica? «Spiritoso. Ci riuniremo al Centro Congressi Frentani, lei ovviamente è invitato, ma onestamente non abbiamo prenotato l’ aula da mille posti (ride di nuovo)».

Mi tolga una curiosità: lei, «toga rossa» per antonomasia, è comunista? «No. Non lo sono mai stato. Sono un movimentista».

Le posso chiedere che cosa pensa dei giudici in politica? «Ritengo che anche i magistrati abbiano il diritto di mettersi in gioco nella Cosa Pubblica e che la loro esperienza possa essere e sia stata utile. Credo pure che chi ha fatto politica per molto tempo non debba più rientrare in magistratura. Sul piano personale sono sempre rimasto stupito che tra i critici più aspri della mia scelta ci siano dei politici che non si sono mai dimessi dalla magistratura, mentre io non ho neppure messo piede in Parlamento».

Sta parlando di Luciano Violante? «Non solo di lui, anche di Anna Finocchiaro, ad esempio, e di altri».

A proposito di porte girevoli, lei ha provato a rivestire la toga e ha rinunciato dopo che l’ hanno spedita a mangiare la mocetta ad Aosta. «Proprio perché il Parlamento è ancora pieno di magistrati in aspettativa, in quel momento non vedevo perché solo io che avevo fatto politica per due mesi dovessi rinunciare alla mia vecchia professione. Comunque ora posso dire grazie al Csm per quella porta sbattuta in faccia perché oggi, come ho detto, faccio l’ avvocato con soddisfazione ed entusiasmo».

Nella stanza appare una giunonica e affascinante valchiria bionda più alta di Ingroia di 20 centimetri e a occhio e croce più giovane di almeno 20 primavere. È lei la nuova compagna dell’ ex pm. Che sembra divertito per lo stupore del cronista: «Su un giornale l’ hanno definita la bionda misteriosa sopra il cielo di Ingroia», ridacchia. E indica con la mano la differenza d’ altezza. Immagino le battute invidiose di certi ex colleghi del magistrato, ma Giselle chiosa: «Antonio non è un uomo complessato». Cuoricini nell’ aria. L’ intervista è finita. E il cronista chiude la porta. FONTE

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