Ambiente e salute

In nome della privacy: la nuova legge sui finanziamenti ai partiti ha blindato i donatori

By admin

February 14, 2016

14/02/2016 – Soldi ai partiti, dichiarare il nome dei finanziatori non è più obbligatorio. In nome della privacy. ormai è diventato un vero e proprio duello a chi sferra più colpi per accaparrarsi più soldi, applicando normative che al cittadino e all’intera collettività, non può che peggiorare la situazione, tramutando, ciò che dovrebbe essere trasparenza assoluta, in vere e proprie esche per le lobby che proprio con i soldi corrompono i nostri politici. Ormai da un paio di anni, con la sicumera di chi ha profuso un immane sacrificio, la politica racconta che una legge (la numero 13/2014) ha eliminato i rimborsi pubblici ai partiti. Forse per distrazione, ancora la politica omette di precisare che, piuttosto, la stessa legge ha abolito la trasparenza sui donatori privati dei partiti: semplici cittadini o famelici imprenditori che scelgono di finanziare le campagne elettorali. Non è un effetto collaterale. Ma un disegno, per niente astratto, che in questi giorni si manifesta appieno. La Camera è invasa da una caterva di ricevute, spedite con solerzia dai tesorieri, per segnalare bonifici e assegni che oscillano da poche migliaia di euro a decine di migliaia. E molti documenti contengono una postilla: dichiarazione unilaterale. Cioè anonima. Il meccanismo è semplice. Chi riceve il denaro, annota. Chi lo elargisce, scompare. Per un utilizzo pretestuoso della privacy e per un trucchetto della politica. Perché succede adesso? Per due motivi. Il primo. Con l’iscrizione dei partiti nel registro del Parlamento (l’ultima del 30 novembre riguarda i dem), la norma è attuata. Il secondo. Il voto a Milano oppure a Torino, a Napoli e Cagliari, è ormai prossimo. Per scoprire cos’è accaduto, l’intricata vicenda – fra cavilli, pareri e artifici – va ricomposta dal principio.

Questa legge ha un difetto congenito. Per sedare i cittadini disillusi da sprechi e ruberie, durante le festività natalizie del 2013, il governo di Enrico Letta ha approvato un decreto per spazzare (con calma, nel 2017) il sostegno pubblico ai partiti. Oltre a introdurre metodi per reperire risorse con il duepermille e con altri stratagemmi, la politica ha diluito i controlli sui benefattori. Quelli che con contributi volontari, per nobili affinità ideali o per più sfacciati interessi, versano soldi ai partiti per strappare un Municipio di una città o uno scranno in Parlamento. Il governo Letta prescrive trasparenza: il limite è fissato a 100.000 euro; la diffusione è ovunque, nei bilanci (ovvio) e nei siti istituzionali. Il decreto scivola verso un’agevole conversione in Parlamento. Ma due eventi ne modificano il percorso. Il sindaco Matteo Renzi, già segretario dem, spodesta Letta. L’ex capogruppo dem Antonello Soro, un dermatologo di mestiere promosso a Garante della privacy, interviene per suggerire un emendamento agli ex colleghi riuniti in Commissione. Il messaggio non è parecchio intellegibile, viene menzionato nella relazione di fine anno dall’Autorità. Il significato: il donatore non va svelato se non firma il consenso al trattamento dei riferimenti personali. Soro rivendica la prontezza di riflessi: “Il garante ha presentato al parlamento e al governo una segnalazione”. Che fa il parlamento? Accoglie con un’ovazione la proposta di Soro.

Il governo di Renzi non ha ancora giurato, ma il fiorentino celebra la conquista. Così il comma 3 dell’articolo 5 si trasforma in un pastrocchio impenetrabile persino al leguleio più esperto. Perché vale la privacy? “Ai sensi degli articoli 22, comma 12, e 23, comma 4, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Con decreto del ministro dell’Economia e delle finanze, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono individuate le modalità per garantire la tracciabilità delle operazioni e l’identificazione dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma”. Ma per sfruttare il lodo di Soro, la politica ha aspettato l’iscrizione nel registro dei partiti dalla Commissione di Garanzia, nominata, dimissionaria, nominata ancora. A fatica, a dicembre, la Commissione ha completato l’elenco. Da quel momento in poi, le donazioni coperte da anonimato sono aumentate.

Questa è la Commissione tecnica che non ha esaminato i rendiconti dei partiti e poi ha preteso di bloccare i fondi statali. Finché la politica, sotto la regia del Nazareno (il dem Sergio Boccadutri), ha strappato una deroga. Parliamo sempre del testo 13/2014. Se impone delle regole, la politica si sottrae. Se offre delle scappatoie, la politica esulta. E la privacy è diventata una questione inderogabile. Per caso, solo per caso, ora i donatori chiedono di non apparire. Il Pd l’ha precisato nell’ultimo bilancio. Quello che occulta i cenoni di finanziamento; a Roma l’ospite speciale era Salvatore Buzzi, braccio sinistro di Massimo Carminati er cecato. Il dettaglio (a chiamarlo dettaglio…) più beffardo: la legge 659 del 1981, sempre in vigore, impone le “dichiarazioni congiunte” da inviare a Montecitorio. Nessuna privacy. Il partito comunica quando, quanto e da chi ha incassato il denaro. Ma la politica preferisce la legge più recente. Chissà per quale ragione. – da il Fatto Quotidiano del 13 febbraio 2016

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