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Napoli Camorra, boss si ispirano a Isis: barba e tattoo frasi islam

By admin

April 13, 2016

13/04/2016 – “Portano la barba come elemento di distinzione (….), scrivono in arabo i loro nomi di battaglia, si tatuano la parola camorra sul collo e i nomi dei loro morti ammazzati sul corpo. Un ammiccamento al fondamentalismo islamico.”

È così che il saggista Isaia Sales sul Mattino di Napoli, nel 2015, descrive una delle tendenze delle nuove leve delle associazioni camorristiche del napoletano, con particolare in riferimento al clan dei cosiddetti “Barbuti” del rione Sanità.

Da quando alcuni dei loro affiliati – poi rilasciati per decorrenza dei termini di custodia cautelare – sono stati arrestati nell’aprile scorso, da più parti si è cominciato a leggere di questa presunta ‘fascinazione’ dei giovani della camorra per l’immaginario dello Stato Islamico. Atrocità, spedizioni punitive, barbe lunghe, frasi con riferimenti alla figura di Maometto – come “Sono l’ultimo prescelto” – sarebbero per molti le prove dell’esistenza di atteggiamenti vicini alla cultura jihadista, vista probabilmente come ‘ideale’ di violenza ed efferatezza.

Si tratta di un’inclinazione che non si limiterebbe al gruppo della Sanità, ma che sarebbe uno dei tratti comuni a giovani boss e affiliati, tanto da essere stata stata attribuita anche a Emanuele Sibillo – il boss quasi ventenne della cosiddetta ‘Paranza dei bambini’ di Forcella ucciso con un colpo alla schiena nel luglio scorso – per via della barba che avrebbe ispirato anche travestimenti di Carnevale.

“Nel loro immaginario il massimo della ferocia e della mancanza di paura è lo Stato Islamico,” spiegava qualche tempo fa a VICE News Vincenzo Morgese della Comunità Jonathan di Scisciano (Napoli). “Dal punto di vista semantico, è uno dei simboli della lotta contro lo Stato, contro tutto quello che rappresenta l’istituzione, e contro le altre tribù”.

Per capire se questa presunta attrazione per lo Stato Islamico esiste davvero, quali sono i suoi meccanismi e da dove nasce, abbiamo contattato il professore dell’Università di Salerno Marcello Ravveduto, autore di libri come “Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema sceneggiata e neomelodici” e componente del Comitato Scientifico della Biblioteca digitale sulla Camorra.

VICE News: Esiste davvero qualcosa di effettivamente avvicinabile allo Stato Islamico, nell’immaginario delle nuove leve di camorra — che siano le barbe lunghe, i tatuaggi in arabo, o le dinamiche di gruppo? Oppure è un’affermazione che non possiamo confermare?

Marcello Ravveduto: Nel linguaggio giovanile del napoletano – così come nell’hinterland e nella regione – farsi crescere la barba ha sempre comportato, nel gioco linguistico dei ragazzi, frasi del tipo “Che fai, il mullah? Il mujaheddin?”

In qualche modo, loro stanno probabilmente elaborando un’identità comunicativa collettiva, esaltata da un fondamentalismo di fondo — che esiste, nel loro modo di agire. Questi due elementi – il simbolo e la prassi – si fondono, formando una nuova identità che viene rappresentata pubblicamente, che serve a riconoscersi fra loro, e ad essere allo stesso tempo differenti rispetto agli altri clan.

Era come quando, durante la guerra di Scampia, gli Scissionisti si facevano chiamare “Gli Spagnoli” pur non essendolo: avevano sì legami con la Spagna, ma era solo un modo per costruirsi un identità differente nel marasma delle decine di clan napoletani. In sostanza, dinamiche del genere servono ad essere comunicativamente efficaci: è una caratteristica della camorra, che è molto sensibile alla comunicazione pubblica del proprio essere.

Perché proprio lo Stato Islamico?

Un elemento tipico dei clan camorristici è loro capacita di interpretare le mode comunicative del momento. In questo senso, non sappiamo se questa tendenza è una cosa che permarrà nel tempo o se rischia di restare legata a questo momento storico.

La camorra metropolitana poi ha mille identità: si va da tendenze fondamentaliste a quelle più ‘organizzate’. Stare dentro o fuori queste dinamiche di clan – o di riconoscimento di identità criminale – è qualcosa che viene determinato dal concetto di ‘tradimento’ nei confronti del gruppo, e dal valore che si attribuisce nei confronti di chi difende gli altri da questa onta.

Tutto questo spinge alla creazione di segni di riconoscimento evidenti e visibili, e ammanta la struttura di un potere parareligioso: concetti come quello dell’onore sono riscontrabili sia in altri scenari criminali, sia nella struttura portante delle costruzioni religiose e parareligiose.

In che senso i clan di camorra hanno tratti avvicinabili alle dinamiche fondamentalistiche?

Il fatto che sempre più l’appartenenza mafiosa è avvicinabile a una forma di fondamentalismo criminale è qualcosa che – in sede psicologica e sociologica – è riscontrabile e sempre più evidente.

Se fosse effettivamente così, il tema non sarebbe tanto “essere come lo Stato Islamico” o avere questa vocazione, ma quello di trovare un’unicità, un rafforzamento del proprio ruolo – individuale e collettivo – all’interno di un mondo criminale che ti dà l’essenza di un luogo.

Dentro Cosa Nostra, per esempio, si è sempre detto che si è mafiosi per “non essere il nulla mischiato con il niente,” per dare un senso alla propria capacità sociale di imporre la una visione del mondo — non soltanto con la violenza ma anche con la capacità di stare nel contesto sociale e conquistare consenso.

In questo aspetto, la camorra è sempre stata differente da cosa nostra e ‘ndrangheta: da qui potrebbe derivare l’esigenza per le le nuove leve di perseguire elementi di identità, che può passare attraverso una forma di pensiero fondamentalista.

Quali erano invece le caratteristiche della vecchia camorra rispetto ai nuovi affiliati, in questo senso?

Nelle vecchie dinamiche c’erano ambizioni di centralismo: la Nuova Camorra cutoliana aspirava in qualche modo a creare una sorta di cupola mafiosa, e si muoveva in un contesto in cui esisteva una certa definizione marcata tra hinterland e città.

La vecchie guerre di camorra interessavano molto spesso i clan della provincia, che volevano arrivare a controllare l’altro fronte. Questa dinamica, quella della provincia, oggi è quasi completamente scomparsa — a parte i Casalesi, anche se adesso sono un po’ scomparsi dalla narrazione pubblica della camorra.

Inoltre, l’attenzione su Scampia esercitata da “Gomorra – La Serie” l’hanno messa al centro delle attenzioni, compresa quella mediatica, spostando l’obiettivo degli interessi criminali sul centro della città di Napoli. Dal punto di vista storico, siamo di fronte a una frammentazione che una volta definivamo “pulviscolare,” ma che ora sembra perseguire più intreessi economici — nel senso che ognuno si occupa dei propri affari mantenendo fermo il controllo del territorio, e mostrando la loro presenza attraverso l’intermediazione e un pesante intervento nel mercato della droga.

Da cosa si deduce il fatto che c’è un nuovo immaginario che si sta imponendo fra le nuove leve e il loro modo di muoversi?

L’immaginario camorristico degli ultimi tempi si è formato dalla fine degli anni Novanta, si è radicalizzato con la guerra di Scampia nel 2004, ed è esploso con “Gomorra – La Serie.”

Questo ha determinato una vera e propria rivoluzione, che ha spazzato via il vecchio immaginario della Nuova Camorra Organizzata cutuliana, e che invece ha costruito intorno a questo nuovo immaginario l’idea di una forza in grado sì di controllare il territorio anche attraverso strumenti ‘fondamentalistici’.

Questi strumenti, alla fine dei conti, sono la costruzione di un’identità settaria, che porta a una sorta di “pulizia etnica” quando – per esempio – si arriva a una scissione nel gruppo; nella creazione di un’identità legata al proprio piccolo contesto piuttosto che a una visione più ampia; e poi la trasformazione di una ‘guerra commerciale’ in ‘guerra di bande’, o in violenza di strada. Il fondamentalismo criminale ha radici localistice ineradicabili nel suo territorio ultralocale. “Stai con me o contro di me,” in pratica. FONTE

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