Esteri

Il “Nixon moment” di Obama che ridà il primato alla diplomazia

By admin

November 29, 2013

L’intesa sul nucleare iraniano ricorda quella con la Cina di Mao degli anni Settanta. Ora come allora l’America parla con il nemico e provoca un effetto domino. Un ricorso storico che fa discutere il “commentariat” Storico errore o svolta storica? Per Bibi Netanyhau l’accordo di “tregua” nucleare firmato dai cinque più uno con l’Iran, lo scorso fine settimana a Ginevra, appartiene a quella serie dei patti scellerati che, nella storia, hanno aperto le porte a tragedie immani. Per esempio, l’accordo di Monaco sottoscritto nel 1938 dal premier Neville Chamberlain, evocato dall’analista di Fox News Kathleen Troia “K.T.” McFarland. La commentatrice mette in contrasto l’intesa che lanciò Hitler nella sua folle avventura con il viaggio di Richard Nixon nella Cina di Mao, nel 1972. Il “grande timoniere” – come successivamente Michail Gorbaciov nel suo rapporto con Ronald Reagan – era effettivamente intenzionato a cambiare corso per arrivare a un accordo con gli Usa, mentre – osserva McFarland – in Iran a comandare non è Rouhani, con cui tratta Obama, ma il suo boss, la guida suprema Ali Khamenei, che continua a farneticare di Israele cane arrabbiato e di America Grande Satana. Mettersi d’accordo con uno così?

Dunque, la firma di Ginevra induce il commentariat di destra e di sinistra a frugare nei libri di storia alla ricerca di precedenti che la sostengano o che siano di monito. E sicuramente l’apertura alla Cina maoista da parte di Nixon sembra la vicenda che si presta di più all’esercizio analogico. «Risocializzare l’Iran facendolo rientrare nella geopolitica mainstream – scrive David Gardner sul Financial Times – sarebbe un fatto esattamente altrettanto storico per il presidente Obama quanto lo fu il riavvicinamento con la Cina sotto la presidenza Nixon».

Paul Brandus, su The Week, ricorda che «Richard Nixon, la cui carriera fu costruita sull’anticomunismo duro, stupì il mondo dicendo che si sarebbe recato in Cina e avrebbe parlato con Mao». I conservatori si sentirono oltraggiati. Washington e Pechino non avevano relazioni diplomatiche da un quarto di secolo, non si parlavano, non si fidavano l’uno dell’altro. «Nixon, che pensava a un livello più alto e guardava al futuro, sapeva bene quel che faceva”, dice Brandus. Che vede un’analoga dinamica “Nixon goes to China” nella diplomazia obamiana nei confronti dell’Iran.

Il “Nixon moment” risuona anche nel modo in cui il presidente attuale ha trattato la faccenda iraniana, aprendo un canale di negoziato segreto con gli iraniani, parallelo a quello formale. Una diplomazia segreta che «Henry Kissinger avrebbe potuto apprezzare», scrive David Ignatius sul Washington Post, ricordando il ruolo cruciale che ebbe l’allora consigliere per la sicurezza nazionale e poi segretario di stato, quando nel 1971 compì due missioni segrete in Cina per preparare il viaggio di Nixon del 1972 con il quale si avviò la normalizzazione delle relazioni tra Usa e Repubblica Popolare Cinese.

C’è un’ulteriore risonanza rispetto a quell’epoca nell’effetto domino (la kissingeriana “Domino Theory”!) che la distensione (altro termine kissingeriano!) con l’Iran potrebbe mettere in moto. «Questa svolta storica – scrive Michael Hirsh sul National Journal – potrebbe potenzialmente trasformare l’intera regione… alterando il paesaggio strategico in un modo mai visto, forse, dai tempi in cui il presidente Nixon fece la mossa del cavallo con i sovietici stringendo amicizia con la Cina comunista all’apice della guerra fredda».

Questi paralleli servono però soprattutto a mettere in rilievo come la diplomazia, sotto Obama, abbia preso il sopravvento rispetto al ricorso alle armi che ha dominato a Washington dall’11 settembre in poi come via maestra nella soluzione delle crisi. Da questo punto di vista, il presidente democratico – e qui ha ancora più senso rievocare Nixon e il dottor Kissinger – è in sintonia con la “scuola” repubblicana, refrattaria alle guerre e tendenzialmente isolazionista, più che con la tradizione interventista e anche militarista dei democratici.

L’intesa con l’Iran, così come il prossimo negoziato sulla Siria a Ginevra, sono «due sviluppi quasi simultanei» che «vividamente affermano come la diplomazia, la venerabile ma spesso insoddisfacente arte del compromesso, sia di nuovo tornata al centro della politica estera americana». Così scrive Mark Landler sul New York Times, in un’analisi che dà atto al presidente Obama di muoversi lungo le linee tracciate fin dalla sua prima campagna presidenziale, quando promise agli elettori che, da presidente, avrebbe steso la mano ai nemici dell’America – perché è con i nemici che si fa la pace – e avrebbe parlato con ogni capo di stato senza precondizioni.

Saltare alle conclusioni, e pensare che il negoziato e la via pacifica trionferanno, sarebbe da ingenui. Eppure è legittimo sperare e pensare che la strada della politica e della diplomazia sia di nuovo percorribile, perché poggia su un solido tracciato. Come osserva Kate Hudson, segretaria generale della Campaign for Nuclear Disarmament, c’è un lavoro tenace e qualificato in quella direzione che va avanti da almeno tre decenni. Un’opera che vede protagoniste le Nazioni Unite e alcune delle sue agenzie, quasi disprezzate e comunque neglette dai media. Hudson, in un commento per il sito di Al Jazeera, mette in luce come, proprio nei giorni di Ginevra, Yukiya Amano, direttore generale dell’Aiea (l’agenzia di monitoriaggio atomico dell’Onu), firmasse un accordo quadro di cooperazione con il vicepresidente iraniano Ali Akbar Salehi, sulla trasparenza e la verifica delle attività nei siti nucleari dell’Iran. È un’intesa che rende fattibile e praticabile quella di Ginevra, che ha avuto ben più risonanza.

Così, a proposito della Siria, dove l’Opcw sta rendendo effettiva la disponibilità di Damasco a collaborare per aprire i siti agli ispettori e smantellare il suo arsenale chimico. «Ugualmente significative e anche meno attese – sottolinea la leader pacifista – sono le notizie della partecipazione, il mese scorso in Svizzera, di Israele, con altri stati della regione, tra cui l’Iran, a colloqui per organizzare una conferenza per rendere il Medio Oriente una zona libera dalle armi di distruzione di massa (Wmd-free zone)».

Dunque, invita a riflettere Kate Hudson, «il dialogo e la diplomazia a livello internazionale possono portare frutti» e, come dimostrano anche questi recenti sviluppi, «sono di cruciale importanza – anche se spesso taciuti – i trattati quadro disposti dall’Onu e le sue strutture legali, di verifica e d’intervento».

È naturale che il ritorno al primato della politica restituisca un ruolo centrale alle Nazioni Unite. Sono trascorsi pochi anni dalle contumelie e dall’esibito disprezzo nei confronti dell’Onu da parte di un’amministrazione che predicava la diffusione della democrazia con le armi. E sembrava, quella, una via senza ritorno. Non è così, ma bisogna ancora darsi molto da fare perché non sia più così. Fonte