Ambiente e salute

Gli italiani si rovinano mentre i privati lucrano: spendono per le slot machine 300 volte più che per i libri

By admin

February 11, 2017

10/02/2017 – La mattina in classe. La sera a scommettere soldi fino a tardi. Noia e slot-machine. L’avvicinamento tra scuola e luoghi del gioco d’azzardo sembra rendere bene. Stasera, un mercoledì qualunque tra le undici e la mezzanotte, è strapieno di ragazzini e ragazzi da spennare. I minorenni si accalcano intorno alle “ticket redeption”, gli apparecchi mangiasoldi per bambini che in Italia hanno invaso i centri commerciali: macchine della fortuna che incassano monete e, quando si vince, sputano metri di cartoncini. I premi li hanno pensati proprio così: metri di scomoda carta in modo che siano ben visibili.

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Avvolti come piccoli Rambo nelle cartucciere, i vincitori si mettono poi in coda al “ticket eater”, il mangia biglietti che dopo molti secondi e qualche lampo di luce restituisce un voucher (accessorio sempre più diffuso nella nostra società). Ed ecco il punteggio totale della vincita da incassare: di solito un minuscolo, inutile oggetto di plastica made in China del valore di pochi centesimi, per il quale ogni baby giocatore ha però speso fino a 10 euro. Gli studenti maggiorenni appena usciti dal cinema multisala saltano invece i preliminari. E, sotto la sguardo del buttafuori senegalese, si infilano direttamente nella porta a vetri del “Luckyville”, la sala del gioco per adulti. Domani mattina non hanno lezione?

Più facile essere colpiti da un fulmine che vincere al gioco

Siamo a Lissone, provincia di Monza e Brianza, lungo la superstrada che da Milano sale a Lecco. Qui la rivoluzione post industriale ha già demolito il mito del lavoro, della fatica, del risparmio: vent’anni fa nessun impiegato, nessun agricoltore, nessun meccanico brianzolo e nemmeno i loro figli avrebbero usato così i loro soldi. Adesso li vedi fino a notte fonda. Giovani e meno giovani, uomini e donne. Più uomini che donne. Da come sono vestiti, non se la passano al massimo. C’è un’asimmetria spaventosa tra il dominio delle macchine e la sottomissione solitaria dei giocatori. File di dita illuminate dagli schermi battono svogliate sul tasto play. Sono nuovi operai di una catena di montaggio retribuita al contrario: pagano per far andare la linea. Ma non si danno per vinti. E, nella monotonia ipnotica dei gesti, continuano a bussare alla stessa illusione.

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RECORD ITALIANO Sono loro e quelli come loro, dal Friuli alla Sicilia, ad aver buttato nel gioco d’azzardo novantacinque miliardi in un anno. Nel 2016 l’Italia ha battuto il record dei record, uno schiaffo alla crisi. Fanno la bellezza di 7,9 miliardi al mese, 260 milioni al giorno, quasi 11 milioni l’ora, 181 mila euro al minuto: cioè il 4,7 per cento del nostro Pil. È come se ogni persona, neonati compresi, avesse puntato e magari perso 1.583 euro. Ci siamo bevuti molto più del fatturato annuale di Mercedes auto (83,8 miliardi), o di Amazon (sempre in euro, 83,6 miliardi) e perfino della Boeing che costruisce e vende aerei nel mondo (90,2 miliardi).

Lotto, scommesse ai cavalli, bingo, poker? Svaghi passati di moda. Più della metà delle puntate, com’era prevedibile, è stata bruciata nella solitudine degli apparecchi mangiasoldi. Secondo i risultati anticipati dall’agenzia specializzata “Agipronews”, 26,3 miliardi li hanno inghiottiti le famigerate slot-machine, che incassano monete e pagano vincite fino a cento euro. E 22,8 miliardi le videolotterie, che deglutiscono banconote e restituiscono fino a cinquemila euro ma, in caso di jackpot, anche oltre. Risultato: quasi 50 miliardi in contanti, il 2,7 per cento del Pil.

Prendiamo l’Abruzzo, dove turisti e residenti muoiono sotto le valanghe perché nessuno riesce a pulire le strade di montagna quando nevica. Gli abruzzesi non hanno spazzaneve efficienti, ma hanno a disposizione 11.154 slot-machine: una ogni 119 abitanti. È il primato europeo, condiviso con il Friuli Venezia Giulia. Eppure sia il numero di spazzaneve, sia il numero di slot-machine con i relativi contratti di concessione dipendono sempre da enti dello Stato. C’è qualcosa che non funziona nella testa delle istituzioni, se siamo arrivati a questo punto.  – FONTE

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