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Sul caso Genova e sulla Cassimatis ha ragione Beppe Grillo

By admin

April 19, 2017

19/04/2017 -A qualcuno potrà sembrare scontato, ad altri potrà forse sembrare strano, ma nella querelle genovese tra Beppe Grillo e la non-candidata MarikaCassimatis ha decisamente ragione il comico ligure.

Un partito, e su questo i 5 Stelle non fanno ovviamente eccezione, è difatti una compagine di persone che liberamente decide di associarsi, per perseguire idee ed obiettivi condivisi: persone legate da una visione comune della società, ed auto-disciplinate secondo un codice di regole che non rappresenta solo una modalità di funzionamento burocratica, ma che bensì definisce – sancisce – l’identità stessa di quel soggetto politico. Quante volte, ad esempio, abbiamo sentito dire che le Primarie del Partito democratico non sono solo uno strumento, ma anzi un elemento costitutivo di quel soggetto politico?

E dunque chi decide di partecipare – come candidato, o come elettore – alle selezioni interne dei 5 Stelle lo fa innanzitutto accettando l’identità e le regole, scritte e non scritte, di quella organizzazione: quelle di un partito non scalabile; quelle di un partito nel quale la proprietà del simbolo è detenuta da uno dei due cofondatori; quelle di un partito nel quale le decisioni vengono assunte o dal leader-padrone o tramite elezioni online, che si svolgono tramite un blog dalla proprietà incerta e la cui stessa regolarità è certificata dall’azienda di proprietà del figlio dell’altro cofondatore.

La professoressa Cassimatis, dunque , avendo l’ambizione di essere il candidato Sindaco di quel suddetto partito, ne ha accettato e ne accetta volontariamente e implicitamente tutte le regole. Anche quelle che prevedono, in ultima istanza, la facoltà suprema del Leader di avocare a sé, senza discussione alcuna, l’uso del simbolo: in base alle sue esigenze e alle sue valutazioni politiche, possano queste essere solide o ingiustificate, banali interessi di corrente o anche solo altrettanto banali capricci.

D’altronde, e ci mancherebbe altro, la vincitrice con ben 362 voti delle primarie genovesi on-online, se lo riterrà avrà tutta la possibilità ed il diritto di candidarsi, e concorrere comunque alla carica di primo cittadino del capoluogo ligure. Saranno i cittadini genovesi, e dunque anche gli elettori del Movimento 5 Stelle, a valutare con il loro libero voto durante le elezioni amministrative sia la proposta amministrativa della Cassimatis sia la bontà delle scelte del leader Grillo e del suo consenziente direttorio, tra l’altro da Grillo stesso nominato.

In ogni caso, la decisione del comico genovese e del giovane erede Casaleggio è forse l’atto più politico prodotto nella scena partitica italiana negli ultimi anni: due leader che, valutando cosa sia meglio per la propria compagine e per la comunità territoriale al cui governo ambiscono, producono una scelta ad alto tasso di impopolarità, assumendo su di sé l’onere della responsabilità e della decisione. Un atto che oggettivamente marca una distanza forte da quella sindrome “ponziopilatesca” che spesso colpisce proprio il gruppo dirigente del Partito Democratico, non di rado nascosto dietro il fragile pannello auto-assolvente delle primarie: un atteggiamento che sovente ha concesso la salvezza a molti Barabba, anche quando la politica avrebbe imposto scelte di prospettiva, e non certo cinici e comodi silenzi.

Anche per questo, proprio per questo, se l’esultanza per la decisione del TAR di Genova da parte degli esponenti di Forza Italia suscita qualche sorriso ilare e amaro, quella di un buon numero di democratici suscita più di qualche perplessità, più di qualche preoccupazione. Da un lato, per la subalternità culturale di chi ha visto esso stesso – come nel caso del commissariamento della federazione napoletana da parte di Bersani – i propri legittimi provvedimenti interni ribaltati da sentenze del tribunale amministrativo: e che dovrebbe dunque conoscere l’importanza di difendere, sempre, il primato della politica. Dall’altro, per l’incapacità di cogliere fino in fondo il bivio, lo snodo, dinanzi al quale ci si trova: la mancata attuazione in questi anni di quanto previsto dall’articolo 49 della nostra Costituzione; ed il tema del deterioramento di una selezione – questa sì – realmente democratica delle classi dirigenti del Paese.

Da questo punto di vista, infatti, il non aver approvato una legge sui partiti, è forse il dolo e la colpa più grave di tutti le esperienze di Governo del centrosinistra, da Prodi a D’Alema, da Letta a Renzi: un errore forse volontario, ben peggiore della vicenda del confitto d’interessi, e che costituisce la vera spada di Damocle sui fragili equilibri della democrazia nel nostro Paese. Una non-scelta, che va di pari passo con una selezione di gruppi dirigenti sempre più slegata da criterio della rappresentanza sociale e sempre più connessa a criteri di censo, agli ambienti elitari di riferimento delle grandi città. Possono le continua prove di forza interne e correntizie del PD, le primarie online ed il vincolo assoluto del doppio mandato grillino, il modello di nomina feudale berlusconiano, assicurare in maniera credibile un ricambio, un radicamento, un confronto reale, un riconoscimento vero nelle Istituzioni del nostro Paese?

Il rischio, per capirci, è un ritorno a una concezione della democrazia ottocentesca, e cioè a una competizione – per la rappresentanza legittima degli interessi – tutta interna al ceto dominante, alle classi più abbienti. E la complementare esclusione dal circuito della rappresentanza, e quindi dal processo decisionale, di larghe masse della popolazione: processo che al’inverso fu invece la vera risposta ai fascismi del secolo scorso da parte dei grandi partiti che furono chiamati a ricostruire l’Italia dopo il conflitto mondiale. – FONTE

Prima che sia troppo tardi, di nuovo, sarebbe il caso qualcuno ne cominciasse a discutere sul serio.

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