Ambiente e salute

Quando l’immigrazione diventa retorica politica

By admin

October 29, 2017

29/10/2017 – In un contesto di disoccupazione e crisi economica il fenomeno dell’immigrazione crea paura e insicurezza nella società. Spesso e volentieri però gli immigrati diventano un capo espiatorio perfetto di tutti i mali del mondo, soprattutto quando l’immigrazione viene strumentalizzata per scopi politici da tutti i fronti, dalla destra alla sinistra, nessuno escluso. Secondo il rapporto statistico sull’immigrazione 2017 non vi sarebbe alcuna invasione musulmana e il tasso di criminalità sarebbe più alto fra gli italiani che fra gli stranieri.

La crisi economica e la mancata integrazione però fa percepire l’immigrazione come un pericolo, soprattutto quando a livello europeo l’Italia viene immancabilmente lasciata sola. !– Inizio codice Hotspot (Native Advertising) eADV.it per il sito lonesto.it –> Non esiste una soluzione o un’unica verità, il complesso fenomeno dell’immigrazione andrebbe trattato al di fuori della propaganda politica. Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori all’Università degli Studi di Milano.

— Professore Ambrosini, in Italia a suo avviso vi è una politica adeguata per affrontare il fenomeno dell’immigrazione?

— È difficile parlare di immigrazione in generale. Ci sono diversi aspetti del fenomeno e direi diversi problemi su vari versanti. I rifugiati sono il tema che ha maggiormente occupato il dibattito pubblico negli ultimi anni. Io ripeto sempre fino alla noia che i rifugiati sono 250 mila, compresi i richiedenti asilo, su 5 milioni e mezzo di immigrati, cioè meno del 5% del totale. Su questo l’Italia ha agito con generosità per alcuni anni sul versante dei salvataggi in mare, non è mai stata molto adeguata né molto efficiente in materia di successiva integrazione sul territorio. La nostra politica tradizionale era farli passare, essere un ponte. Gli stessi rifugiati di solito non chiedevano nulla di meglio e si dirigevano verso il nord Europa.

Ultimamente sono avvenuti due fenomeni: i nostri partner europei ci hanno obbligato ad accoglierli in Italia con la politica degli hotspot e con il blocco delle frontiere sulle Alpi. È aumentato il numero di rifugiati in Italia. Infine per effetto della crescente ostilità dell’opinione pubblica e delle autorità locali, il governo ha assunto la triste decisione di fare accordi con le autorità e capi tribù libici per contenere i richiedenti asilo in Libia in condizioni spesso inumane.

Abbiamo in questo momento una discussione molto accesa su una riforma della legge sulla cittadinanza, in modo particolare per quanto riguarda le seconde generazioni. Su questo tema l’Italia ha una delle legislazioni più restrittive d’Europa insieme al piccolo Lussemburgo. Abbiamo già 800 mila ragazzi di origine immigrata nelle scuole, 1 milione 100 mila minori, una nuova generazione scaturita dall’immigrazione che cresce nelle nostre città. Non sembra particolarmente illuminato escluderli, complicare il loro accesso alla cittadinanza. div id=”div-gpt-ad-1488814430090-0″>

— Questi ragazzi al raggiungimento della maggiore età otterrebbero comunque la cittadinanza per legge.

— Non è proprio così. Se sono nati e sempre vissuti in Italia senza allontanarsi per più di 4 mesi fra il 18 e i 19 anni possono chiedere la cittadinanza e hanno un percorso facilitato. Gli ostacoli sono molti, a partire dal fatto che la maggior parte di coloro che arrivano alla maggiore età non sono nati in Italia, poi ci sono i trasferimenti, le mancate iscrizioni anagrafiche. C’è una serie di inghippi burocratici che complicano il processo.

— L’immigrazione sicuramente è anche un fenomeno positivo se ben gestito. Il vero problema forse è l’accoglienza e l’integrazione. Bisogna puntare più su questo?

— L’Italia ha fatto sette sanatorie in 25 anni più altri provvedimenti minori o nascosti. La maggior parte degli immigrati adulti che oggi vivono in Italia hanno passato un periodo come irregolari e hanno beneficiato di una sanatoria. Il nostro Paese, come in generale l’Europa meridionale, ha dimostrato fino al 2007 e al 2008 grandi capacità di integrazione. Questo quando il mercato del lavoro tirava, imprese e famiglie avevano bisogno di colf, baby sitter e di assistenti domiciliari per gli anziani. C’è stata un’integrazione dal basso quasi all’esterno della regolazione istituzionale, che però ha sostanzialmente funzionato. La politica ha preso atto a posteriori del fatto che gli italiani, famiglie comprese, chiedevano di mettere in regola delle persone immigrate.

Noi avremmo bisogno di ritornare a questo pragmatismo, di depoliticizzare la questione, di vederne i rapporti spesso sinergici con i bisogni del nostro Paese.

— Il presidente del Consiglio Europeo Tusk ha recentemente dichiarato che il sistema delle quote di ripartizione dei migranti non ha futuro. Insomma, i Paesi europei non vogliono suddividersi i migranti, lasciando sola l’Italia. Che ne pensa?

— Prima di tutto non si tratta di migranti, le quote riguardano i richiedenti asilo, un segmento molto specifico. Se parliamo di migrazioni qualificate c’è una caccia di cervelli, non in Italia, noi non ne abbiamo bisogno, nei Paesi più sviluppati sì. Se parliamo di migrazione interna all’Europa nonostante la Brexit la maggioranza di immigrati in Italia, in Germania sono europei.

Poi ci sono le politiche non scritte, per esempio l’Unione europea, compreso il nostro Paese, ha tolto l’obbligo del visto all’Ucraina qualche mese fa mentre chiudevano verso i richiedenti asilo. Quindi di fatto, a volte esplicitamente a volte implicitamente, l’Europa da anni sta praticando una politica che favorisce gli arrivi dall’Est e cerca di bloccare gli arrivi dal Sud o dal Medioriente.

Per quanto riguarda le quote nemmeno io sono convinto che sia la soluzione più giusta. È una soluzione intermedia, un alleggerimento per i Paesi del Sud Europa, ma la politica auspicabile sarebbe un’altra, quella per cui i rifugiati possano chiedere dove poter andare. Bisogna ovviamente mettere a bilancio dell’Unione europea i costi necessari per l’accoglienza del segmento dei richiedenti asilo.

— Il fenomeno immigrazione genera paura e insicurezza, perché nel Paese la disoccupazione cresce, c’è la crisi. Possiamo dire che questo sentimento è molto comprensibile?

— Sì, il sentimento è comprensibile, i nessi sono più complessi. L’ostilità verso gli immigrati c’era anche prima della crisi del 2007. Negli ultimi 10 anni la crisi ha rafforzato e esasperato l’ostilità. Io ricordo nei primi anni ’90 manifesti a Milano “la barca è piena” e queste politiche sono sempre ricorrenti. In realtà gli xenofobi cercano nel mercato delle opinioni quelle che di volta in volta sono più adatte a suffragare le loro posizioni.

Credo che dietro ci siano le paure, le ansie, le fragilità legate a certi effetti della globalizzazione e al fatto che la globalizzazione ha reso più incerto il futuro di molti cittadini delle economie sviluppate, in particolare quelli meno attrezzati. Da questo punto di vista gli immigrati sono il tipico capo espiatorio. Sì, ci sono delle motivazioni che posso comprendere, ma penso che sia una scorciatoia illusoria, oltre che pericolosa di identificare i rifugiati come la causa delle nostre crisi. — Probabilmente quindi è la mancanza del lavoro nella società ad essere il punto principale. Un Paese che non può offrire lavoro ai giovani evidentemente non è in grado di accogliere migranti e dar loro condizioni di vita dignitose?

— Non sono tanto d’accordo, perché gli immigrati occupano posizioni nel mercato che non interessano ai nostri disoccupati. Quattro ragazzi su cinque oggi arrivano al diploma di scuola media superiore, io non ne vedo tanti disponibili a salire sui cantieri, lavorare sui tetti, asfaltare le strade o ad assistere gli anziani a domicilio 24 ore al giorno. È un legame retorico da polemica politica: dicono che siccome abbiamo tanti disoccupati non possiamo accogliere.

In realtà se riparte l’economica avremo ancora bisogno di lavoro povero per sostenere e alimentare il lavoro buono e ricco. Penso al caso emblematico delle donne adulte: ogni donna che trova un lavoro di classe media ha bisogno che qualcuno prenda il suo posto a casa, quindi per anni in Italia la crescita dell’occupazione femminile ha alimentato la crescita dell’occupazione immigrata, non viceversa. In Italia, come altrove, gli immigrati si concentrano nelle regioni più ricche, dove c’è meno disoccupazione. Non vedo un vero legame, vedo piuttosto un problema di percezione, di fragilità, di indebolimento del welfare, si fa presto a dare la colpa agli immigrati, i problemi sono a monte e sono legati alla globalizzazione. – FONTE

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