Ambiente e salute

Fidanzati uccisi a Pordenone, Ruotolo condannato all’ergastolo

By admin

November 09, 2017

09/11/2017 – È Giosuè Ruotolo, 28 anni, originario di Somma Vesuviana (Napoli), l’assassino dei fidanzati di Pordenone. Fu lui, la sera del 17 marzo 2015, a esplodere i sei colpi di pistola che, nel parcheggio della palestra di via Interna, uccisero Trifone Ragone, 28 anni, di Adelfia (Bari), suo ex coinquilino e commilitone alla caserma De Carli di Cordenons (Pordenone), e Teresa Costanza, 30 anni, assicuratrice milanese di origini siciliane, trasferitasi per amore con lui in Friuli.

A stabilirlo, dopo una camera di consiglio durata due giorni interi, è stata la Corte d’assise di Udine, con il verdetto pronunciato alle 15.37 di oggi. “Ergastolo con due anni di isolamento diurno”, ha scandito il presidente del collegio giudicante, Angelica Di Silvestre, nell’affollata aula di giustizia dove, dal 10 ottobre 2016, pubblica accusa, parti civili e difesa si erano misurate in un dibattimento particolarmente difficile, per essersi sviluppato su elementi processualmente indiziari.

Affiancato dai difensori, gli avvocati Giuseppe Esposito e Roberto Rigoni Stern, Ruotolo ha ascoltato la lettura del dispositivo soffocando le lacrime. Alle sue spalle, con il volto chino e contrito,il padre Alfonso e il fratello Giovanni. Sul banco opposto, il pm Pier Umberto Vallerin e tutti i legali di parte civile, che hanno visto pienamente accolte le rispettive richieste di condanna e risarcimento dei danni.

IL MOVENTE TRA LAVORO, CHAT E GELOSIA Un astio profondo verso l’amico e la sua ragazza, insediatasi a sua volta nell’appartamento di via Colombo dove, insieme ad altri due commilitoni, l’anno prima avevano deciso di andare a vivere, e diventata in breve l’elemento di frattura di un’armonia condominiale, che, per quanto già minata da screzi di poco conto, li vedeva ancora uniti tra lavoro, palestra e serate in discoteca. E, poi, la paura di perdere per colpa loro la chance di entrare nella Guardia di finanza, il sogno inseguito da quando era partito dalla Campania.

Queste, secondo gli inquirenti, le ragioni a sostegno dell’intento omicidiario, maturato nel momento in cui Trifone riconobbe in Giosuè l’autore del profilo Facebook anonimo con cui, nell’estate del 2014, aveva cercato artificiosamente di creare conflitto nella coppia. I messaggi, tutti rivolti a Teresa e firmati da una fantomatica amante di nome “Annalisa” (peraltro, realmente conosciuta da Trifone in palestra), erano stati inviati dalla caserma. Sfruttandone il sistema wi-fi, quindi: il che, in caso di denuncia, sarebbe equivalso a un’accusa per peculato militare. Da qui, la premeditazione. “Li ha uccisi per salvare il posto fisso e il suo futuro nelle Fiamme gialle, senza alcun freno inibitorio, guidato dall’odio per Teresa e dalla gelosia per Trifone”, aveva affermato il pm nelle 11 ore di requisitoria. E sarebbe stato proprio questo stesso timore per la carriera – così si è giustificato poi l’imputato – a spingerlo a tacere la propria presenza sul luogo del delitto nelle dichiarazioni rese ai carabinieri all’indomani del ritrovamento dei corpi.

Una bugia pesante, quindi, che sommata agli altri indizi raccolti nel frattempo dalla Procura tra testimonianze, filmati e perizie, il 7 marzo 2016 aveva convinto il gip a firmare l’ordine di carcerazione per lui e i domiciliari con braccialetto elettronico per Mariarosaria Patrone, la sua fidanzata di Somma Vesuviana (poi liberata e tutt’ora indagata per favoreggiamento) che, pure a conoscenza del profilo Fb, avrebbe tentato di depistare le indagini per coprire Giosuè.

• LE INDAGINI Il primo tassello investigativo era arrivato il 19 settembre 2015, con il ritrovamento della pistola nel lago del parco di San Valentino, a 300 metri dal parcheggio in cui i fidanzati erano stati freddati: una vecchia Beretta 7,65 modello 1922. Un cimelio, insomma, per il quale tuttavia non è mai stato trovato un collegamento con Giosuè: gli accertamenti biologici hanno escluso la presenza di tracce riferibili tanto a lui, quanto alle vittime. Eppure, era stato proprio Ruotolo, con i suoi spostamenti, a suggerire ai carabinieri di cercare lì l’arma del delitto.

Qualche giorno prima, i filmati di una telecamera avevano mostrato la sua auto, un’Audi A3, arrivare in via Interna, girare in direzione del lago, sparire per sette minuti, e infine ricomparire in un altro punto della strada. La svolta era arrivata. Perché Giosuè aveva mentito e cosa aveva fatto in quel breve lasso di tempo? Convocati a loro volta in caserma, gli altri due coinquilini, Sergio Romano e Daniele Renna, avevano ritrovato pian piano la memoria e, oltre allo scherzo della chat, avevano ricordato di quando, nel novembre 2014, dopo averle prese da Trifone, Giosuè avesse giurato “Io quello lo uccido”. Tutto falso, secondo la difesa, che non ha esitato a rimarcare come di quell’utenza anonima di Fb fossero entrambi complici. Nè alcun peso – secondo la loro ricostruzione – può avere il riconoscimento dell’auto di Ruotolo, a loro dire allontanatosi dal parcheggio prima degli spari, diversa da quella indicata dai testimoni, un runner e un pesista, che avevano parlato di un’Audi A3 Sportback, cioè a cinque e non tre porte.

Interrogato, l’imputato aveva spiegato di essere andato al parco per fare jogging, ma di avere poi desistito, dopo avere ascoltato due canzoni in auto, perchè faceva troppo freddo. “Il movente non c’è – avevano detto i legali nella maratona delle rispettive arringhe -. Ne sono stati indicati diversi, ma non siamo al ristorante, dove i giudici possono scegliere dal menù quello che preferiscono”. Una glaciale esecuzione, questo era stato per la difesa il duplice omicidio di Pordenone. “Opera – avevano detto – di un professionista del crimine”. FONTE

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