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“Sincronizzate gli orologi”: ultimo editoriale di Marco Travaglio

By admin

November 09, 2017

09/11/2017 – Il 20 dicembre 1993 l’Italia era, come oggi, all’inizio della campagna elettorale in vista del voto del 26 marzo ’94. La prima segnata dallo scandalo di Tangentopoli (che, nelle precedenti elezioni del 6 aprile ’92, era appena esploso a Milano e non ancora rimbalzato a Roma). Il procuratore Francesco Saverio Borrelli avvertì la classe politica in un’intervista al Corriere: “Sappiamo che certe coincidenze possono provocare sconquassi, ma che possiamo farci? Io credo proprio niente. E vorrei rilanciare la palla sull’altra sponda, a chi farà politica domani. Quelli che si vogliono candidare si guardino dentro. Se sono puliti, vadano avanti tranquilli. Ma chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte, dico io, prima che arriviamo noi” – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 09 novembre 2017, dal titolo “Sincronizzate gli orologi”.

Con tutte le inchieste aperte che aveva il pool Mani Pulite sui vecchi partiti di centro e di sinistra e sul gruppo Fininvest (il cui padrone B. stava per “scendere in campo”), Borrelli sapeva bene quali conseguenze avrebbe potuto avere qualunque doverosa iniziativa della sua Procura sulla vita politica. E impostò quel tema cruciale nella maniera più schietta e ragionevole: chi ha la coscienza sporca non si candidi; ma, se lo fa, non venga poi a lamentarsi con i pm perché l’hanno beccato. Il guaio è che B. stava entrando in politica anche e proprio per salvarsi dalla galera, che comprensibilmente sentiva prossima. Infatti, 11 mesi dopo, si ritrovò indagato per la prima di una lunghissima serie di volte. Ed è ancora incredibilmente a piede libero.

Oggi, 24 anni dopo, siamo daccapo. E c’è ancora chi pensa di cavarsela con la barzelletta della “giustizia a orologeria”. Come se le indagini venissero comunicate per danneggiare qualcuno alle elezioni, mentre è esattamente l’opposto: ieri è finito agli arresti per associazione a delinquere, evasione fiscale e false fatture il neodeputato regionale siciliano Cateno De Luca (Udc), eletto appena due giorni prima col neogovernatore Musumeci. Era uno dei tanti impresentabili censiti dal Fatto (minacciava pure querela), scampato a 14 procedimenti penali (una bella media per un tipo di 40 anni, decisamente precoce), ma non al quindicesimo che l’aveva portato in carcere e a processo (in corso) per concussione e abuso. Uno che, per prudenza e decenza, non l’avrebbe ricandidato nemmeno il mostro di Lochness. Se, com’è probabile, i magistrati di Messina avevano deciso il suo arresto prima del voto, è chiaro che han preferito eseguirlo dopo per evitare l’accusa di “giustizia a orologeria”. Scelta magari comprensibile.

Ma anche assurda: gli elettori hanno diritto di sapere tutto di un candidato prima di votare, non quando è troppo tardi (anche se, per farsi un’idea su Cateno, un nome una vocazione, bastava il curriculum giudiziario passato). Ora il fattore G come Giustizia si riproporrà in campagna elettorale, visto che oggi come nel ’93 i partiti non hanno alcuna intenzione di seguire il vecchio consiglio di Borrelli.

Lo schieramento favorito è di nuovo il centrodestra guidato (o così almeno crede lui) da B., che nel frattempo ha collezionato una condanna definitiva per frode fiscale, 8 prescrizioni, tre processi in corso e un’indagine appena riaperta per le stragi mafiose del ’93 e, fra l’altro, non può votare né essere eletto. Per non parlare del lombrosario che si porta appresso. Il Pd ha i suoi indagati, così come la famiglia allargata di Renzi. Per non dire di Verdini&C. e degli alfaniani, che da qualche parte verranno piazzati. I 5Stelle pure, anche se si tratta non di candidati al Parlamento, ma di sindaci, e non per fatti di corruzione o abuso di potere o mafia, ma di nomine, bilanci comunali, municipalizzate e scelte amministrative. Oggi però il Fattore G è molto meno decisivo di ieri. E aggiungiamo “purtroppo”. La corruzione, l’evasione e il malaffare dilagano, le mafie ingrassano fino a scoppiare, in conflitti d’interessi sono ormai così “normali” da essere invisibili. Perché c’è sempre meno gente credibile per denunciarli. Con che faccia il Pd che ha fatto quattro governi (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) con B. o chi per esso e ha scritto con lui due leggi elettorali e una “riforma” costituzionale, potrà più denunciare le mille ragioni che lo rendono impresentabile? Idem i giornaloni (tutti) e gl’intellettuali (tanti) che quei governi hanno incensato.

Potranno farlo, volendo, Piero Grasso che dopo una vita in toga e cinque anni in Senato diventa leader-federatore delle sinistre; e i 5Stelle, che sull’antiberlusconismo, l’antimafia e l’anticorruzione non hanno mai mollato. Ma che effetto sortirà la pur doverosa denuncia dei rapporti mafiosi, delle tangenti e di tutte le altre malefatte che rendono B. più che mai unfit? In America fanno scandalo i rapporti fra Trump e Putin: noi, con B., abbiamo già dato. Da Hollywood a Parigi, da Londra a Vienna, fanno scalpore gli scandali sessuali dei potenti, produttori e politici: noi, con B., abbiamo già dato. In Israele il premier Netanyahu è sull’orlo della crisi per storie di tangenti: noi, con B., abbiamo già dato. La Corona britannica vacilla per i Paradise Papers sugl’investimenti offshore della regina e del principe Carlo: noi, con B., abbiamo già dato. E digerito. E metabolizzato.

Ciò che all’estero fa scandalo qui è acqua fresca. Un condono tombale che ha abbassato l’asticella dell’impresentabilità fin sotto il livello del mare. E che regala ai politici di oggi e di domani una franchigia illimitata per tutte le condotte più gravi. Se un ministro venisse sorpreso a rapinare una banca, la reazione sarebbe un corale “embè?”. Chissà se esiste un linguaggio nuovo ed efficace per rimuovere la grande rimozione: se avete qualche idea, fateci un fischio. – Articolo intero su Il Fatto Quotidiano in edicola oggi.

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