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“Querelanti non querelabili”: editoriale di Marco Travaglio

By admin

December 27, 2017

27/12/2017 – Quasi quasi fondo un partito anch’io: si chiamerà MPCQCC, Movimento Contro il Preannuncio di Querele e Cause Civili. L’anno che fortunatamente va a morire, di questi annunci, ne ha collezionati a carrettate, soprattutto dagli ultimi che dovrebbero lanciarli: gli uomini di potere, dotati di tutti i mezzi per far conoscere la loro versione dei fatti, senza bisogno di intasare i tribunali e minacciare i giudici con la propria forza intimidatoria. Specie i parlamentari, che praticano con gran voluttà lo sport della denuncia annunciata, ma appena ne ricevono una corrono a trincerarsi dietro l’insindacabilità dell’art. 68 della Costituzione (anche se i loro insulti non c’entrano nulla con le funzioni parlamentari). Ora l’impunità è divenuta obbligatoria anche per chi la rifiuta (l’altro giorno la Camera l’ha donata a Paola Taverna, malgrado i voti contrari di tutti i 5Stelle) e financo retroattiva (il Senato ha appena immunizzato Albertini per le ingiurie al pm Robledo precedenti la sua elezione, poi ha deciso di procedere contro Robledo per le sue critiche ai senatori). E così i parlamentari si sono trasformati in una strana specie auto-protetta di querelanti non querelabili.

Nella Prima Repubblica, quando la politica era una cosa seria o almeno fingeva di esserlo, i parlamentari facevano uso parsimonioso della querela e dell’ancor più intimidatoria della causa civile per risarcimento danni. E, quando assurgevano alle più alte cariche dello Stato, si spogliavano delle liti private per non mettere in imbarazzo i giudici e dedicarsi all’interesse generale.

Giovanni Giolitti, sanguinosamente bollato nel 1910 da Gaetano Salvemini come “ministro della malavita”, si guardò bene dal denunciarlo. Andreotti, pur accusato di qualsiasi delitto dell’orbe terracqueo, non querelò mai un giornalista. E così, sentendosi un “monarca repubblicano”, l’avvocato Agnelli. Le denunce di politici a giornalisti, tutte rigorosamente penali e “con ampia facoltà di prova”, erano così rare da fare scalpore. Nel 1978 il presidente Giovanni Leone voleva denunciare per oltraggio al capo dello Stato Camilla Cederna per il pamphlet del 1978 Giovanni Leone: la carriera di un presidente, ma la Dc lo bloccò, negandogli l’autorizzazione a procedere del governo Andreotti (la Cederna fu poi condannata per diffamazione su querela dei figli di Leone). E nei primi anni 90 Francesco Cossiga, linciato da una violentissima campagna di stampa a suon di “golpista” e di “pazzo”, si guardò bene dal querelare i suoi detrattori.

Quando Indro Montanelli fu portato in tribunale da Ciriaco De Mita per avergli dato del “padrino” sul Giornale, i giudici di Monza nel 1989 lo condannarono a un simbolico risarcimento di 1 milione di lire: peggio di un’assoluzione per il querelante e meglio di un’assoluzione per il querelato. Andò peggio ad Alberto Cavallari, direttore del Corriere post-P2, ma perché scese in campo direttamente il premier Bettino Craxi, rompendo la lunga tradizione del fair play istituzionale. Nel 1983 il dirigente Psi Salvo Andò accusò Cavallari di essere stato nominato dalla P2. Cavallari replicò a muso duro: “il Psi cerca il polverone avendo parecchie pendenze penali da sistemare a Torino e altrove… Se gli amici dei ladri mancano di rispetto al giornale, lo ripeterò all’infinito nonostante le intimidazioni, magari aggiungendo: come mai il Partito socialista non ama una direzione che preferisce i carabinieri ai ladri?”. Nel 1984 il Tribunale di Roma, davanti a cui Craxi appena salito a Palazzo Chigi si era costituito parte civile, stabilì che Cavallari aveva reagito a un “fatto ingiusto, gravemente lesivo della sua onorabilità, tanto più ingiusto perché non comportava elementi obiettivi di prova, e quindi gratuiti”, lo assolse dall’accusa di diffamazione contro Andò (anzi, il diffamato era lui); poi però diede un contentino a Craxi e gli appioppò 5 mesi di reclusione per leso Psi.

Nella Seconda Repubblica, B. e i suoi impiegati portarono il malvezzo craxiano alle estreme conseguenze: il sottoscritto si beccò una cinquantina di cause (quasi tutte civili e quasi tutte vinte) e così altri giornalisti (persino l’Economist che l’aveva definito “inadatto a governare”, financo le “10 domande” di Repubblica sulle sue minorenni), ma anche comici, scrittori, registi. Prodi invece non querelò mai nessuno. D’Alema, quando andò a Palazzo Chigi nel ’98, ritirò tutte le denunce a giornalisti, anche se poi gli slittò la frizione e querelò il Corriere e persino Forattini per una vignetta sul caso Mitrokhin (cause poi ritirate). Infine vennero Renzi e i suoi cari, che hanno rinverdito i fasti craxian-berlusconian, con una raffica di querele iniziata quando il giovin Matteo era presidente della Provincia e sindaco di Firenze (e trascinò in tribunale persino un usciere di Palazzo Vecchio e il dj di una radio locale), proseguita nei tre anni a Palazzo Chigi e continuata da fuori nell’ultimo anno. Ormai basta nominare lui o uno del Giglio Magico per sentir risuonare nell’aria il ritornello del “ti querelo!” o del “ti faccio causa!” ai pochi giornalisti che osano contraddire il Clan dei Fiorentini. Come se bastasse denunciarli per passare dal torto alla ragione. Ovviamente ciascuno ha diritto di querelare chi vuole, anche se il galateo del buon politico dovrebbe sconsigliarlo se non in casi estremi (le campagne calunniose orchestrate sul nulla, col rifiuto di pubblicare rettifiche). Ma le denunce si fanno e poi si attende il verdetto dei giudici: che senso ha annunciarle ai quattro venti, come se fossero un evento epocale, o un’impresa eroica?

In aprile, non sapendo più che dire dello scandalo Consip, Renzi va da Lilli Gruber ce si in- venta che “Travaglio è scappato dal Tribunale di Firenze dove in sede di conciliazione mio padre gli chiedeva 300 mila euro”. Balla sesquipedale. Nessuna conciliazione, semmai una causa civile intentata da babbo Tiziano contro il Fatto per tre vecchi articoli sul fallimento della sua Chil Post, seguita da una sua proposta indecente di mediazione (300 mila euro), da noi rispedita al mittente. E nessuna fuga del sottoscritto: le cause civili si celebrano sulle carte e sono riservate ai giudici e agli av- vocati, mentre denunciati e denuncianti non compaiono mai. Quella poi era un’udienza interlocutoria, durata un paio di minuti, dove i legali hanno chiesto i termini per presentare memorie, e morta lì (Tiziano in aula non aveva aperto bocca perché non ne aveva facoltà e si era presentato lì con un paio di giornalisti per fare scena). Passano due giorni e Renzi trova il modo di annunciare una querela a Re port per un’ inchiesta sull’editore dell’Unità Massimo Pessina. Intanto la Boschi spara un bel “ti querelo” a Ferruccio De Bortoli, che nel suo libro ha svelato le sue richieste a Ghizzoni (Unicredit) di salvare Etruria. Poi niente querela, ma sette mesi dopo solo un annuncio di causa civile. Giovedì scorso la sottosegretaria chiede di confrontarsi con me a Otto e mezzo e, appena apro bocca sulla testimonianza di Ghizzoni, anziché rispondermi con la sua versione dei fatti, se ne esce col solito “le faccio causa”. Così, su due piedi, in diretta. L’indomani tocca a Marco Carrai: non gli basta che pubblichiamo la lunga lettera con la sua versione della mail inviata a Ghizzoni per sollecitare risposte su Etruria. No, nella stessa lettera già annuncia che fa causa al Fatto. L’ultimo atto, per ora, della querelomania gigliata lo compie quel gran genio del tesoriere Francesco Bonifazi, che il 21 dicembre, con tutto quel che sta venendo fuori su Pd&banche, si reca dai carabinieri di Firenze per denunciare Giovanna Mazzoni, l’anziana vittima del crac Cariferrara che il 2 settembre aveva osato contestare Renzi alla Festa dell’Unità di Bologna (“Avete rubato!”, “Rubato lo dice a sua sorella!”). Poi, qualche ora dopo, il legale di Bonifazi annuncia che “all’esito di una valutazione complessiva”, ha ritirato la querela. Ma ormai la figuraccia è online. Tutto questo nel Paese dei processi che durano dieci anni. Tant’è che, come dice Piercamillo Davigo, “all’estero per minacciare qualcuno si dice ‘ti faccio causa’, in Italia si dice ‘fammi causa’…”. – (pressreader.com) – di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano 27 dicembre 2017 Dal momento che sei qui…. … abbiamo un piccolo favore da chiedere. Più persone stanno leggendo il nostre le nostre notizie selezionate dai maggiori media locali e internazionali, ma le entrate pubblicitarie attraverso i media stanno calando rapidamente. Vogliamo mantenere la nostra rassegna stampa più aperta possibile. Quindi puoi capire perché dobbiamo chiedere il tuo aiuto. Diventa sostenitore L’Onesto clicca mi piace sulla pagina facebook Puoi farlo anche con una donazione tramite Paypal cliccando sul tasto: (Donazione Minima 5€), si accettano eventuali proposte di collaborazioni: