La toga destinata al Csm e la storia di sesso e coca
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21/09/2019 – Ringraziato personalmente da Sergio Mattarella per il suo «atto di responsabilità», il giudice Paolo Criscuoli ha lasciato mercoledì il suo seggio al Consiglio superiore della magistratura. Era rimasto l’ultimo, tra i consiglieri comparsi nell’inchiesta che ha terremotato il Csm, a non rassegnarsi alle dimissioni. Ma ormai gli altri consiglieri minacciavano di abbandonare l’aula se si fosse ripresentato. Così Criscuoli toglie il disturbo. Ma le sue dimissioni, se risolvono un problema, ne aprono un altro: per il semplice motivo che il giudice che dovrebbe prendere il posto di Criscuoli non potrà farlo, essendo investito da una vicenda imbarazzante a base di sesso (e altro).
Che fine abbia fatto nel frattempo l’inchiesta della procura di Perugia sul marcio nel Csm non si sa. Dopo l’ondata di accuse e di rivelazioni che ha investito in giugno l’organo di auto-governo travolgendone un folto gruppo di membri, compreso il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, ci si aspettava che Perugia chiudesse il fascicolo e rendesse noti tutti gli atti. Ora invece la Procura ha chiesto una proroga delle indagini, segno concreto che quanto emerso finora – il sistema di potere che ruotava intorno al giudice Luca Palamara e al suo asse di ferro con l’ala renziana del Pd – potrebbe essere solo una parte della verità. Spartizione di cariche e manovre ai danni dei rivali forse non riguardavano solo Palamara e i suoi amici.
Nel frattempo, però, c’è da risolvere la rogna della successione a Criscuoli. Il regolamento prevede che subentri il primo dei non eletti. Ma ne è rimasto uno solo, essendo tutti gli altri già entrati in Csm dopo le dimissioni in massa di giugno. L’ultimo in lista d’attesa è Bruno Giangiacomo, presidente del tribunale di Vasto, esponente di Magistratura democratica, in passato giudice a Bologna. E proprio al periodo bolognese risale la storia per cui ora si trova sotto procedimento disciplinare, e che riguarda i suoi rapporti ravvicinati con una avvocatessa, Donata Malmusi, finita sotto processo per cessione di cocaina.
Nel processo a carico della Malmusi ne sono uscite di tutti i colori. Lo studio legale dalle testimonianze delle praticanti che vi lavoravano è emerso come uno studio assai allegro, dove tutti andavano a letto con tutti, compresi i clienti (prevalentemente extracomunitari accusati di reati di droga). E dove si facevano feste a base di coca. «Ci sono stati dei periodi in cui abbiamo esagerato – dichiara in aula lo scorso 22 marzo una ex praticante – anche più volte, tutti i giorni». Chi portava la cocaina? «L’avvocato Malmusi».
Dove la prendeva? «Dai clienti che spacciavano». Una parte del conto poteva essere pagata in sostanza stupefacente? «Poteva capitare». Cosa c’entra il giudice Giangiacomo? Subito dopo la praticante, nella stessa udienza viene interrogata la Malmusi. Che in parte respinge le accuse, in parte cerca di giustificarsi per avere fatto ogni tanto uso di coca. Passavo un brutto momento, dice. E tira in ballo il magistrato. Avevo una storia clandestina con lui, dice: «Ma dopo quattro anni di sofferenze, di rapporto vissuto come dei ladri, purtroppo ci sono dei problemi, si sbaglia, manda un messaggio indirizzato a me alla moglie, la moglie scopre tutto».
Ora la love story con la Malmusi rende difficile che Giangiacomo approdi al Csm. E siccome non ci sono più rincalzi, i giudici italiani dovranno tornare a votare, come già faranno il 6 ottobre per rimpiazzare due pm dimessi dal Csm, in questo pasticcio di cui per ora non si vede la fine. – [FONTE]
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