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01/03/2022 – Estraevano dalle bocche dei loro pazienti i denti sani (oltre a quelli malati), per ricavare un maggiore guadagno: è iniziato a Marsiglia, in Francia, il processo contro i cosiddetti “dentisti dell’orrore”, Jean-Claude Guedj e il figlio Lionel, accusati da oltre 300 persone di aver eseguito operazioni ed asportazioni immotivate, semplicemente per guadagnare più denaro. I pazienti entravano per una carie e si ritrovavano con un ponte, eseguito anche in maniera inadeguata. Inoltre, per i pazienti che loro malgrado finivano sotto i ferri dei due dentisti, iniziava il calvario post-operatorio: un inferno fatto di ascessi e infezioni.
Lionel e Claude Guedj sono accusati di violenze volontarie che hanno portato a mutilazioni o infermità permanente e truffa, con i fatti che risalgono al periodo di attività tra il 2006 e il 2012. I due dentisti si sono sempre difesi dicendo di aver “guadagnato quei soldi onestamente”. Nel frattempo Lionel Guedj è stato anche radiato dall’orduine dei medici, ma secondo i suoi legali i casi sarebbero legati ad un eccesso di imprudenza, ma che le ferite provocate sono state involontarie.
Diversa la tesi dell’accusa, riportata dai media francesi, secondo cui il dentista “interveniva male e a sproposito”: “Quando proponeva che era meglio togliere tutto, non si osava contraddirlo. Ci diceva: vi regalo il sorriso di una star”. Per conoscere l’epilogo di questa vicenda dovremo aspettare l’esito del processo, intanto Guedj, che rischia fino a 10 anni di carcere, ha accumulato un patrimonio di 12 milioni di euro, che comprende auto di lusso, quadri di Andy Warhol, sculture di Arman, uno yacht, un palazzo con 64 appartamenti e diverse case. – [FONTE]
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26/03/2021 – I militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Lecce stanno eseguendo nella giornata odierna un’ordinanza di applicazione di misure cautelari personali nei confronti di 3 persone tutte residenti nella provincia salentina, emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, nei confronti di tre fratelli ritenuti responsabili di plurimi reati di natura associativa. L’inchiesta denominata “Doppio Gioco”, coordinata dalla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e condotta dal Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (G.I.C.O.) del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Lecce, ha smantellato un’organizzazione operante nel mercato del gaming e del gioco d’azzardo legale ed illegale nelle province di Lecce e Taranto, gestendo un vorticoso giro d’affari nel settore delle famigerate slot machines, dei videopoker e nella raccolta di scommesse per eventi sportivi, fatte confluire sulle piattaforme informatiche di bookmaker stranieri.
In tale ambito, le Fiamme Gialle salentine hanno accertato che tre fratelli neretini, a capo di un’organizzazione criminale fortemente affermata in Salento, avevano costituito un sistema economico illegale nel mercato della raccolta di scommesse e gioco d’azzardo, noleggiando e distribuendo in numerosi locali pubblici apparecchiature elettroniche da intrattenimento, alcune delle quali alterate nel software delle schede di gioco ed altri dispositivi denominati “totem” riproducenti il gioco illegale del videopoker, ovvero, ancora, idonei a consentire l’accesso a giochi e scommesse a distanza offerti da soggetti privi della necessaria concessione dei Monopoli di Stato, in totale evasione delle previste imposte e di tutte le regole di mercato idonee a garantire la correttezza e legalità del giuoco.
La complessa attività investigativa ha dimostrato l’operatività dei destinatari della misura cautelare nel settore dei giochi illegali e la loro capacità di inserirsi nel tessuto dell’economia legale anche attraverso imprese individuali formalmente intestate a prestanome e società che, le investigazioni delle Fiamme Gialle, hanno consentito, in realtà, di ricondurre ai vertici del sodalizio criminale. I tre fratelli ed i loro complici gestivano il gioco d’azzardo anche attraverso slot machine “taroccate”, cioè appositamente manomesse per interrompere i flussi telematici di comunicazione ai Monopoli di Stato, sottraendo in questo modo gli ingenti guadagni all’imposizione dovuta allo Stato sull’ammontare delle giocate realizzate dai singoli dispositivi elettronici. I provvedimenti di cattura sono stati eseguiti nel Comune di Nardò (LE) e le ipotesi di reato contestate vanno dall’associazione per delinquere, alla frode informatica, all’esercizio del gioco d’azzardo, di quello abusivo delle scommesse, al trasferimento fraudolento di valori per sottrarli ad eventuali misure di sequestro.
Durante le indagini i militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Lecce hanno effettuato numerosi sequestri di apparecchiature elettroniche nei confronti dei vari prestanome dei destinatari dell’odierno provvedimento, oltre che presso centri abusi di raccolta scommesse in denaro. – [FONTE]
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23/09/2020 – Oltre 250 operatori della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, su delega della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, stanno dando esecuzione a 51 misure cautelari personali, di cui 22 detentive, nonché a 106 misure cautelari reali, per circa complessivi 24 milioni di euro, emesse dal G.I.P. del Tribunale reggiano. L’attività d’indagine denominata “Billions”, condotta dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza e dalla Squadra Mobile della Questura di Reggio Emilia, supportata dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, ha permesso di scoprire un’associazione a delinquere, composta da 49 soggetti specializzata nell’offrire, in via “professionale”, “servizi” di emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, per consentire alle imprese beneficiarie l’abbattimento dei propri redditi imponibili, con realizzazione di svariati delitti in materia tributaria: emissione ed utilizzo in dichiarazione di fatture false, occultamento della documentazione contabile e omessa dichiarazione dei redditi.
Gli investigatori, attraverso le intercettazioni telefoniche ed ambientali, i servizi di osservazione e pedinamenti, l’analisi dei flussi finanziari e l’approfondimento di segnalazioni per operazioni sospette, sono riusciti ad individuare una struttura associativa particolarmente complessa dedita altresì al riciclaggio di denaro, anche all’estero, all’autoriciclaggio e alla commissione di reati di bancarotta fraudolenta.
La presunta associazione a delinquere smantellata era composta, infatti, in modo estremamente strutturato: al vertice vi erano i Capi che coordinavano dieci cellule operative che potevano contare di società di comodo (delle vere e proprie cartiere) per la emissione di fatture per operazioni inesistenti, di “prelevatori” professionali di denaro da sportelli bancomat e procacciatori di soggetti economici interessati ad ottenere servizi finanziari illegali. Al gradino più basso dell’organizzazione vi era una folta schiera di soggetti “prestanome” titolari di una miriade di società “cartiere” che non avevano alcuna struttura aziendale e che servivano solo per “produrre” fatture false. Eloquente a tal proposito una conversazione, captata dagli inquirenti, tra due indagati che scherzando si chiedevano ironicamente che cosa producessero le loro società, rispondendosi che “producono soldi”.
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L’analisi dei flussi finanziari delle società “cartiere” ha permesso di ricostruire movimentazioni quantificate in oltre 240 milioni di euro, delle quali ben 50.000.000 di euro sono consistite in prelievi di denaro contante. L’ammontare del giro di fatture false emesse è stato calcolato in 80 milioni di euro con un’imposta evasa quantificata in circa 24 milioni di euro. Nel corso delle indagini sono state eseguite, in diverse occasioni, perquisizioni locali e personali che hanno portato al sequestro di circa 500.000 euro, di cui 267.000 euro in contanti, provento dei reati e di cui rappresentavano la monetizzazione. Lo schema esecutivo dell’illecito prevedeva, dapprima, il pagamento integrale della fattura falsa da parte dell’impresa beneficiaria. Successivamente tali disponibilità venivano prelevate in contanti dai richiamati “prelevatori”, soggetti al soldo dell’associazione con il compito di recarsi presso vari uffici postali ed effettuare prelievi frazionati, in modo da non superare le soglie previste dalla normativa antiriciclaggio.
Infine tali somme venivano restituite ai Capi dell’associazione che le retrocedevano alle imprese beneficiarie, al netto di una commissione per il “servizio” prestato. A seguito di un sequestro effettuato nei confronti di un “prelevatore”, destinatario di misura detentiva, lo stesso aveva confidato alla moglie che essendo stato “bruciato” non avrebbe più potuto “lavorare” e sarebbe stato costretto a trovarsi un “lavoro vero”. Tra le condotte contestate agli indagati vi è anche il reato di autoriciclaggio. I sodali infatti provvedevano, attraverso società create ad hoc, ad inviare bonifici all’estero in favore di imprese comunitarie sempre controllate dagli stessi, per un importo complessivo di 1,2 milioni di euro, giustificando le movimentazioni finanziarie quale pagamento di acquisti intracomunitari, rivelatisi fittizi. I fondi così trasferiti venivano poi re-investiti in attività commerciali localizzate sempre all’estero e riferibili all’organizzazione criminale. Sul versante comunitario, il sodalizio criminale aveva organizzato, altresì, una frode cd. “carosello”, relativamente alla compravendita di autovetture dalla Germania.
L’attività d’indagine ha permesso di accertare l’esistenza di una società “cartiera” con sede a Reggio Emilia, che ha acquistato veicoli usati per un importo complessivo pari a circa 2, 8 milioni di euro, e di società “filtro” che si interponevano tra l’impresa reggiana e i concessionari di automobili venditori finali del bene. Tale meccanismo ha permesso alle società di evadere l’IVA e, dunque, di commercializzare le autovetture sul mercato nazionale a prezzi più “vantaggiosi”, in danno dell’Erario e della libera concorrenza. Le indagini hanno anche chiarito come il sodalizio avesse messo a punto un complesso sistema di truffa e successivo autoriciclaggio del provento realizzati ai danni di Istituti bancari.
Nel dettaglio, veniva in primo luogo attivavo un conto corrente intestato a società cartiera del sodalizio in modo da instaurare un rapporto con le banche; successivamente veniva rappresentata la fittizia solidità della società, dissimulandone la natura di cartiera, attraverso la creazione di una struttura minima e la formazione di documenti falsi; in questo modo ottenevano mutui o altre forme di finanziamento da parte delle banche; successivamente trasferivano il denaro ricevuto sui conti delle altre società del sodalizio in modo da essere reimpiegato nel meccanismo di emissione di fatture false. Durante le investigazioni è stato accertato, inoltre, che gli indagati si sono resi responsabili anche di reati fallimentari. Gli stessi hanno infatti portato al fallimento quattro società utilizzate come cartiere, distraendo, in larga parte attraverso prelevamenti in contanti, complessivamente più di 7 milioni di euro.
Tenuto conto dell’ingente debito fiscale in capo alle società fallite, va da sé che ancora una volta è stato l’Erario a subire il danno maggiore delle condotte fraudolente. Nel corso dell’attività d’indagine è stato possibile monitorare anche un conflitto, tra gli associati ed un gruppo criminale riconducibile alla famiglia G. di Verona, città in cui alcuni membri dell’associazione avevano subito il furto di 50.000 euro in contanti che sarebbero dovuti servire per finanziare un’operazione illegale. In tale occasione, veniva interessato uno dei vertici dell’associazione, destinatario di misura detentiva in carcere e già condannato nel processo AEMILIA per dirimere la questione.
Tra i destinatari di misura detentiva risulta presente un ulteriore soggetto di spicco della criminalità calabrese, che è stato uno dei protagonisti della guerra di ‘ndrangheta combattuta a Reggio Emilia negli anni ’90. Da ultimo, avendo accertato che 9 degli indagati sono risultati beneficiari di reddito/pensione di cittadinanza, con avvenuta erogazione complessivamente di oltre 80.000 euro, sono in corso ulteriori attività ispettive per l’immediata revoca del beneficio e il recupero delle somme indebitamente percepite. – [GdF.Gov.it] CONTINUA A LEGGERE >>
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14/03/2018 – Il governo inglese costruirà un’ala di una prigione a Lagos per spedire in patria i criminali nigeriani ospiti delle carceri di Sua maestà. E lo farà con i fondi per contrastare l’immigrazione illegale. In Italia è praticamente impossibile rimandare a casa gli stranieri dietro le sbarre, che sono un detenuto su tre. Nigeriani, marocchini, tunisini, albanesi e romeni considerano il Belpaese un «paradiso penale», come ha denunciato a fine gennaio il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bologna, Ignazio De Francisci. Il ministro degli Esteri inglese, Boris Johnson, ha annunciato al Parlamento la costruzione di una nuova ala del carcere Kiri-Kiri nella capitale nigeriana con 122 posti letto per i detenuti rimpatriati da Londra. La prigione di massima sicurezza nigeriana ha una storia controversa per sovraffollamento, violenze e alta mortalità fra i carcerati.
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Per questo motivo Londra ha deciso di mettere in piedi una nuova ala che rispetti le condizioni di vivibilità previste dalle Nazioni Unite. L’obiettivo è rispedire in patria i 270 condannati nigeriani delle carceri britanniche. L’investimento è di 788mila euro, ma ogni straniero detenuto in patria costa circa 40mila euro all’anno. Ed il bello è che le autorità britanniche utilizzeranno, senza battere ciglio, i fondi per il ritorno a casa dei migranti illegali. Johnson ha sottolineato che «aiutare la Nigeria a migliorare le condizioni penitenziarie permetterà di trasferire un maggiore numero di detenuti nigeriani liberando posti nelle carceri del Regno Unito».
Gli inglesi hanno chiuso accordi per il trasferimento di detenuti anche con Albania, Ruanda, Giamaica e Libia. Nel nostro Paese un detenuto su tre è straniero. Le 190 carceri italiane «ospitano» 57.608 persone. A dicembre 2017, gli stranieri erano 19.745, il 34,3% della popolazione carceraria. Il nostro sistema penitenziario è sempre sovraffollato e riuscire a mandare a casa loro gli stranieri servirebbe a ridurre costi e liberare posti in cella.
«Il sovraffollamento delle nostre carceri è figlio della presenza di detenuti stranieri, che potrebbero scontare la pena nei loro Paesi di origine» dichiarava lo scorso anno il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. L’Italia ha già mosso i prima passi con l’Algeria, ma si punta anche sul Marocco e la Tunisia. I marocchini in carcere sono 3703 seguiti da romeni e albanesi. Poi ci sono i tunisini (2112) ed i nigeriani (1125), quasi quattro volte i numeri inglesi.
Il problema è che il Belpaese è «un paradiso penale» per i criminali stranieri. De Francisci, procuratore a Bologna, ha puntato il dito contro «certa giurisprudenza» che «ostacola il trasferimento dei detenuti stranieri perché scontino la pena nei Paesi d’origine». In pratica si asseconda «la preferenza degli stranieri per le carceri italiane anche quando non ve ne sarebbero i presupposti». Non sono gli unici ostacoli: Paesi come la Tunisia tendono a non riconoscere il criminale che dovrebbe venire espulso. Così il condannato sconta la pena, a carico del contribuente, con tutti i benefici di legge previsti in Italia ben superiori a quelli della sua nazione d’origine. La Romania non risponde sulle condizioni delle loro carceri. Il risultato è che il delinquente romeno resta in cella da noi o viene liberato perchè a casa sua non vengono rispettati gli standard penitenziari previsti da Bruxelles. FONTE
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