15/08/2017 – Nel dicembre del 2022 milioni di tifosi si riverseranno nel minuscolo stato del Qatar in occasione della XXII edizione dei Campionati del Mondo di calcio. Un emirato islamico, quello della penisola Arabica, dove è vietato il consumo di alcol e dove camminare per le Corniche – le passeggiate lungomare della sua capitale, Doha – può costare un paio di notti in prigione.
E’ questa l’esperienza di Samuela B., 30 anni, torinese, un passato da ingegnere in Italia e, cinque anni fa, la decisione di accettare un lavoro per una importante multinazionale a partecipazione italiana la quale nel deserto del Qatar sta costruendo la rete metropolitana che accoglierà i supporter delle 32 nazionali di calcio.
Appartamento aziendale dotato di ogni confort, all’interno di una area sorvegliata dove alloggiano gli occidentali che lavorano nell’emirato governato dalla famiglia reale Al Thani; in qualità di straniera, varcato il confine, Samuela è costretta a depositare il suo passaporto presso le autorità locali. Una prassi che ha come conseguenza l’impossibilità di lasciare il paese, se non con l’autorizzazione del datore di lavoro qatariota.
Ma tutto questo è nulla, a confronto di quanto recentemente è successo alla giovane ingegnera italiana che per avere passeggiato sul lungomare di Doha con un collega inglese, è stata arrestata e incarcerata per un intero weekend. «Conosco bene le leggi locali, e so che non è possibile per un uomo e una donna non sposati – spiega Samuela – girare per mano o baciarsi in luoghi pubblici, ma il mio solo errore, se così posso chiamarlo, è stato quello di salire su uno dei giochi che costeggiano le Croniche, grazie all’aiuto di un collega di lavoro».
E proprio questo «aiuto» ha scatenato le ire di un ricco egiziano in vacanza con la famiglia nell’emirato il quale, avendo assistito alla scena, ha pensato bene di avvisare le autorità locali.
Fermata sul posto da una pattuglia della polizia, Samuela è stata portata in prigione, spogliata, vestita di bianco e rinchiusa in una cella con altre detenute. «Nel momento in cui i poliziotti mi hanno detto che avrei dovuto seguirli al loro commissariato – racconta la ragazza – ho pensato che fosse solo una formalità. Invece, quando mi hanno costretta ad indossare quei vestiti e mi sono ritrovata in una cella come se avessi commesso una rapina, ho iniziato a preoccuparmi».
Era venerdì sera, senza sapere il motivo, senza potere fare una telefonata, senza avere mangiato, Samuela si è ritrovata in un incubo che però le ha aperto le porte verso un mondo sconosciuto. Nella stessa cella, una ragazza tailandese era in prigione da sei mesi, perché il marito la aveva ripudiata, sostenendo il fatto che lo avesse tradito con un cugino.
«Sapevo che in Qatar la parola di un uomo vale infinitamente più di quella di una donna – continua Samuela – ma ascoltare la testimonianza di quella ragazza sposata con un qatariota mi ha fatto cadere in un profondo stato di panico e paura». Nella giornata di sabato, l’incontro con altre carcerate, rinchiuse nel braccio femminile, e tutte avevano la stessa storia da raccontare: straniere, sposate a cittadini qatarioti, denunciate per tradimento o atti omosessuali, quindi, imprigionate ed abbandonate da tutti. Nel frattempo, a Samuela che aveva avvisato tutti di essere dipendente di una importante azienda locale, venivano negati i più basilari diritti civili. «Gli sguardi dei carcerieri sul mio corpo erano oppressivi, le perquisizioni, i commenti – ricorda la giovane ingegnera – mi facevano pensare il peggio, e mi preoccupava il fatto che, essendo sabato, nessuno mi avrebbe cercata almeno fino a lunedì».
Finalmente, domenica mattina, una guardia si decide, preleva Samuela e la porta in un ufficio dove viene ascoltata. Le spiegano che un egiziano la aveva denunciata per atti osceni. «Ho spiegato a quelle persone che conosco benissimo le leggi locali – continua la ragazza – e che il mio amico mi aveva solo aiutata a salire su uno scivolo, ma che nulla era successo e che però volevo parlare con questo egiziano tanto scandalizzato». A questa richiesta, il poliziotto incaricato dell’interrogatorio spiega a Samuela, letteralmente che «la parola di un arabo non ha bisogno di essere messa a confronto con quella di una italiana», e che quindi non poteva essere messa in discussione. «Nella disperazione totale ho pregato di potere chiamare la famiglia – racconta Samuela – o almeno il mio datore di lavoro, ma sembrava che nessuno volesse ascoltarmi».
Alla fine, dopo un’altra notte insonne, passata ad ascoltare le esperienze di ragazze, tutte straniere, schiavizzate dai propri mariti qatarioti; rinnegate e messe a tacere con accuse inesistenti, domenica mattina per Samuela si aprono le porte del carcere, senza spiegazioni e senza scuse.
«Tornata al lavoro lunedì mattina – spiega la ingegnera – ho raccontato tutto al mio capo italiano, lui ha chiamato le autorità di Doha, ma queste sorprendentemente hanno negato categoricamente di avere registrato l’arresto di una italiana».
Per due settimane, Samuela ha cercato di capire se non fosse il caso di lasciare quel posto ma, alla fine: «ho dovuto prendere atto – spiega la torinese – che a casa mia mi avrebbe aspettato solo un lavoro in qualche fast food o in un call center». FONTE
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