Unesco: quanto paghiamo per diventare patrimonio dell’umanità

31/01/2019 – Siamo il Paese più bello del mondo: è un fatto. La maggior parte delle bellezze mondiali, dichiarate Patrimonio dell’Umanità, si trovano in Italia. Un totale di 54 meraviglie fra monumenti, parchi, centri storici, luoghi culturali espressamente dichiarati «unici» dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che ad oggi tutela 1092 luoghi sparsi in tutto il mondo. Il riconoscimento è così prestigioso che quasi ogni anno puntiamo a incrementare la lista e di solito ci riusciamo: tranne la Valle D’Aosta e il Molise, ogni nostra regione ha uno o più siti ammessi al Patrimonio, confermando all’Italia il record indiscusso fra i 167 Paesi che possono sfoggiare il marchio Unesco.

Tutta questa bellezza ha un prezzo. Per far funzionare l’istituzione e portare avanti, fra gli altri, l’oneroso compito di «identificare, proteggere e trasmettere alle generazioni future» l’immenso patrimonio mondiale, l’Unesco, solo quest’anno ha potuto contare su un budget di 780.590.945 di dollari. Di questi, solo 20.363.217 ce li hanno messi le Nazioni Unite, perché al resto devono pensare i singoli Stati, con un contributo obbligatorio annuale calcolato in base a reddito e popolazione. L’Italia ha versato 12.237.220 dollari nel solo 2018. Prima di noi ci sono Giappone (31.601.935 dollari), Cina (25.858.800 dollari), Germania (20.860.085 dollari), Francia (15.864.635 dollari), Regno Unito (14.571.695 dollari) e Brasile (12.482.095). Siamo il settimo contributore ordinario, ma il primo finanziatore per contributi volontari extra-bilancio: 28.054.715 nel 2017

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Cosa vanno a finanziare tutti questi soldi? Non la tutela del patrimonio, perché per quello non sono previste entrate ordinarie. L’organizzazione, infatti, ha piuttosto il compito principale di «costruire la pace attraverso la cooperazione internazionale in materia di istruzione, scienza e cultura». Proprio «all’istruzione» va la cifra maggiore del budget: 206.341.273, nel 2017, mentre 318.5 milioni di dollari sono impiegati per pagare gli stipendi del personale e mandare avanti gli uffici, e per le missioni che i rappresentanti Unesco organizzano sui luoghi per verificare lo stato di salute dei siti tutelati e fornire eventuali consigli alle amministrazioni locali. Per quanto riguarda le necessità concrete necessarie a tutelare il patrimonio mondiale, l’Unesco vi destina solo il 3% del proprio budget: nel Fondo World Heritage Convention 1972, nel 2017, si contavano precisamente 30.554.167 dollari e, di questa cifra, poco o nulla entra nelle casse degli Stati in cui effettivamente si trovano le «meraviglie» universali.

«Noi non riceviamo soldi dall’Unesco — ci hanno confermato dal Ministero degli Affari Esteri — ma versiamo molto perché abbiamo molto patrimonio e perché ci interessa tutelare i Paesi in via di sviluppo», quelli che, invece, effettivamente hanno potuto contare sulle risorse dell’organizzazione, destinate per la maggior parte a Brasile, Afghanistan, Iraq, Giordania e Myanmar. Diverso destino dovrebbe toccare alle risorse dell’ulteriore specifico Fondo istituito proprio per la tutela del patrimonio mondiale, ovvero solo 1.791.968 dollari, considerando i contributi obbligatori, cui per fortuna si aggiungono le donazioni e i contributi volontari versati da alcuni Stati, fra i quali però questa volta l’Italia non figura. Sta di fatto che, dal 1972 a oggi, l’unico contributo ottenuto dall’Unesco ammontava a 20.000 dollari ricevuti nel 1994 per un corso dal titolo: «Informazioni, documentazione e utilizzo delle pubblicazioni dell’Unesco sul patrimonio culturale e naturale».

In sostanza, l’Unesco certifica che siamo belli, ma alla tutela concreta poi, gli Stati devono pensarci da sé, il che vale anche per il patrimonio istituito nel 2003 per i beni «immateriali»: come «la dieta mediterranea», «l’arte della pizza napoletana», quella «dei muretti a secco», iscritta appena un mese fa; la «pratica agricola della vite ad alberello di Pantelleria» e numerose altre ancora che — vale la pena chiederselo — non avrebbero in fondo la stessa autorevolezza senza il brand Unesco?

Non devono nutrire alcun dubbio le amministrazioni locali del nostro Paese che per candidarsi non badano a spese. L’ultima assemblea annuale del World Heritage Committee, chiamata a decidere sulle nuove candidature, si è tenuta a luglio scorso a Manama, la capitale del Bahrein. All’elenco è stata ammessa la città di Ivrea perché «esprime una visione moderna del rapporto tra produzione industriale e architettura». Per iscrivere la città piemontese si sono sborsati 452.624 euro; meno del mezzo milione di euro che avrebbe tirato fuori la Regione Veneto per far ottenere il marchio alle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, poi bocciate.

Dovrebbe valerne la pena perché, portando a casa la targa Unesco, si può attirare turismo, anche se le ricadute effettive sono difficili da misurare. Un dato piuttosto sconfortante diffuso dall’ufficio statistico dell’Unione europea, che calcola il numero di impiegati nel settore culturale, vuole per il momento l’Italia appena al 19esimo posto, su 28 presi in considerazione. In compenso ci sono i finanziamenti che il Ministero dei Beni Culturali può destinare ai beni iscritti al Patrimonio in base a una apposita legge del 2006.
Da sempre, a ricevere di più c’è il sito «I Longobardi, i luoghi del potere» cui sono stati destinati oltre 750.000 euro solo negli ultimi 4 anni; mentre nel 2017, 105.000 euro sono andati ai paesaggi vitivinicoli del Piemonte, 100.000 euro per l’arte rupestre della Val Camonica, per Modena, Pompei e le strade nuove di Genova. In totale, negli ultimi 10 anni, il Ministero ha finanziato il nostro patrimonio con 25.434.706,24 euro, mentre quelli che abbiamo versato nello stesso periodo obbligatoriamente nelle casse dell’organizzazione ammontano a 120 milioni di dollari. Davvero possiamo permetterci una spesa così imponente? O sarà come diceva Francis Bacon: «Non c’è bellezza perfetta che non abbia qualcosa di sproporzionato». – [Corriere.it]
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