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Coronavirus, Sentenza preventiva: un PM che, appena avviata un’inchiesta, emette già la sentenza, per giunta sballata

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31/05/2020 – In oltre trent’anni di indagini e processi ne abbiamo viste tante, ma questa ci mancava: un pm che, appena avviata un’inchiesta, emette già la sentenza, per giunta sballata, per giunta in tv. È accaduto l’altroieri con l’incredibile dichiarazione rilasciata al Tg3 dalla pm di Bergamo Maria Cristina Rota subito dopo aver sentito come testimoni il presidente della Regione Attilio Fontana, l’assessore alla Sanità Giulio Gallera e il presidente della Confindustria lombarda Marco Bonometti, a proposito della mancata istituzione della “zona rossa” nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nella bassa Val Seriana.

Questa: “Da quello che ci risulta, è una decisione governativa”. Purtroppo alla signora risulta male. La legge 883 del 1978 (“Istituzione del sistema sanitario nazionale”) stabilisce che la competenza è tanto del ministro della Salute (“può emettere ordinanze di carattere contenibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica”) quanto delle Regioni e dei Comuni (“Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contenibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni, e al territorio comunale”).

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La logica della norma è chiara: su territori che investono più regioni, decide il governo; su territori estesi in più comuni nella stessa regione, provvede la Regione; su territori rientranti in un solo comune, interviene il Comune. Infatti il 22 febbraio, all’indomani dell’esplosione dei primi due focolai italiani a Codogno (Lodi, Lombardia) e Vo’ Euganeo (Padova, Veneto), il governo centrale sigilla Vo’, Codogno e altri 10 comuni del Lodigiano.

Lo stesso giorno scoppia il contagio all’ospedale di Alzano (Bergamo, Lombardia), ma né la Regione né il Comune fanno nulla. Anzi l’Ats (della Regione) fa chiudere e riaprire dopo tre ore l’ospedale, senza sanificarlo. E senza dire nulla né al ministero della Sanità né ai malati e ai parenti, che entrano ed escono ignari di tutto. Così la bomba deflagra anche sui comuni vicini (Nembro ecc.).

Oggi Fontana e Gallera, i Ric e Gian della cosiddetta sanità lombarda, raccontano la favola della Regione che voleva chiudere la Val Seriana ma non poteva, mentre il governo poteva ma non voleva. Tutte balle. Il 26 febbraio Gallera dichiara: “In Val Seriana i numeri sono non trascurabili, ma è presto per dire se siano tutti legati al contagio di un medico del pronto soccorso di Alzano. Situazione, questa, che abbiamo già individuato e sottoscritto” (o “circoscritto”?). Intanto, in perfetta corrispondenza di amorosi silenzi, la Confindustria bergamasca lancia la campagna “Bergamo is running”.

Running verso la morte: i contagiati salgono del 100% in 24 ore. Il 29 febbraio riecco Gallera: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno nell’ordinanza che abbiamo preso, Alzano compreso”. Il 2 marzo, col record nazionale dei contagi in Val Seriana, la Regione è sempre zitta e immobile al servizio degli industriali, mentre a Roma si muove l’Istituto superiore di sanità, raccomandando al Comitato tecnico-scientifico la zona rossa a Nembro e Alzano.

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Il 3 marzo il documento giunge sul tavolo del premier Conte, che chiede un approfondimento al ministro Speranza e al Comitato. Il 6 marzo centinaia di poliziotti, carabinieri e militari perlustrano la Val Seriana in vista della zona rossa. Ma vengono richiamati, probabilmente dal Viminale, perché Conte ha ormai deciso di chiudere l’Italia intera in “zona arancione”: cosa che fa la sera del 7 marzo.

A quel punto Fontana comincia a raccontare di aver “chiesto a Conte la zona rossa” perché “io non ho titoli a (sic, ndr) bloccare un diritto costituzionalmente protetto”. E invece li ha in base alla legge 833/1978, come dovrebbero sapere lui (così geloso dell’autonomia lombarda) e a maggior ragione Gallera, visto che quella legge disciplina i poteri degli assessori regionali alla Sanità rispetto allo Stato.

Quando poi Conte, stufo delle balle di Ric e Gian, osserva che i due potevano disporre tutte le zone rosse che volevano, Gallera va a leggersi la legge (peraltro richiamata in vari Dpcm) e gli si apre un mondo. Tant’è che il 7 aprile si arrende: “Avremmo potuto fare noi la zona rossa? Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente”. Meglio tardi che mai. Avesse approfondito prima, avrebbe potuto chiudere anche altre zone ad altissimo contagio (tipo il Bresciano) evitando altre stragi. Invece, incredibilmente, la Regione col record mondiale dei contagi, non ha disposto una sola zona rossa in tre mesi.

Intanto, fra marzo e aprile, Regioni infinitamente meno a rischio ne disponevano ben 47: una l’Umbria, 2 l’Emilia Romagna (più 70 zone arancioni, esclusa purtroppo Piacenza), 5 il Lazio, 3 la Campania, 12 l’Abruzzo, 5 il Molise, 4 la Basilicata, 11 la Calabria, 4 la Sicilia (l’elenco l’ha pubblicato Selvaggia Lucarelli su Tpi). Gli unici a non sapere di poterlo fare erano Fontana e Gallera. Che poi hanno scoperto di poterlo fare, ma dinanzi alla pm hanno ricominciato a negarlo.

E la pm – a sentire la sua dichiarazione al Tg3, che in un paese serio indurrebbe la Procura generale ad avocare il fascicolo – se l’è bevuta. Salvo poi precisare che “si tratta di indagini lunghe e complesse”. Se poi, durante l’indagine lunga e complessa, qualcuno desse un’occhiata alle leggi, potrebbe aprirne un’altra per falsa testimonianza. – [Di Marco TRAVAGLIO F.Q.it del 31/05/2020]
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Stop alle censure immotivate da parte di Facebook

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Stop alle censure immotivate da parte di Facebook. Il social network non potrà più disattivare profili sulla base di violazioni solo presunte ed evidenziate senza contraddittorio. Prevista una penale in capo all’azienda americana per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account immotivatamente disattivato. È quanto stabilito dal tribunale di Pordenone nella causa civile n. 2139/2018 pubblicata lo scorso 10 dicembre. La vicenda riguarda un procedimento cautelare, patrocinato dall’avvocato Guido Gallovich, in cui il ricorrente chiedeva a Facebook l’immediato ripristino del suo profilo personale e l’immediata riattivazione del relativo accesso ad una pagina gestita dal profilo stesso o, in subordine, la riattivazione della pagina per il tramite di un nuovo account personale.

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Il tribunale di Pordenone, sezione civile, ha accolto il ricorso presentato sulla base delle seguenti motivazioni: in primo luogo, «la società resistente, pur in assenza di una chiara, seria e reiterata violazione da parte dell’utente delle condizioni contrattuali, ha deciso dapprima di inibire l’accesso, e poi rimuovere la pagina, con ciò violando non solo le regole contrattuali, ma anche il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione». La seconda motivazione riguarda l’oggetto del contendere, ovvero la pubblicazione di un video di highlights tennistici in presunta violazione della normativa in materia di proprietà intellettuale. Secondo il tribunale, visto che il video era stato caricato da una pagina pubblica e il ricorrente, appena avvertito del presunto illecito, ha provveduto a levarlo dalla pagina, la condotta «non può certo qualificarsi quale chiara, seria e reiterata violazione delle condizioni per l’utilizzo del social network».

In terzo luogo, «la società, a fronte di un possibile abuso, peraltro commesso in buona fede, ha deciso di sanzionare il ricorrente con il blocco e poi la chiusura della pagina senza consentire allo stesso di giustificarsi, adottando un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi, finendo così non solo per violare le norme contrattuali, ma anche violando i diritti costituzionalmente garantiti al ricorrente. Su queste basi li tribunale ha deciso di accogliere il ricorso ordinando a Facebook l’immediato ripristino del profilo personale del ricorrente. Il riferimento all’immediato intervento viene giustificato dal tribunale nella sentenza; in fatti, con riferimento al c.d. periculum in mora si osserva che la necessità di un’immediata tutela in via anticipatoria rispetto a quella che conseguirebbe all’esito di un giudizio di merito, si giustifica in ragione della circostanza che il prolungarsi del congelamento di una pagina Facebook determina l’assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza, la vanificazione di tutto il tempo speso, con l’irrimediabile perdita dei followers finora acquisiti». – [FONTE]
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Stati Uniti, i democratici perdono la causa contro Trump e Wikileaks per le email rubate

03/08/2019 – Assolti. Dopo tre anni di accuse e un’incessante campagna di attacchi politici e mediatici, Julian Assange e la sua organizzazione WikiLeaks sono stati assolti dal giudice federale di New York, John G. Koeltl, per la pubblicazione delle email dei Democratici americani durante la campagna elettorale del 2016.

Il giudice Koeltl, che secondo quanto riporta la stampa americana è stato nominato proprio dai Democratici, ha stabilito che la pubblicazione di documenti veri e nel pubblico interesse, anche nel caso in cui siano stati rubati, è protetta dal Primo emendamento della Costituzione americana e pertanto non può essere punita.

Si tratta di un verdetto che riconferma un principio che negli ultimi decenni ha sempre garantito al giornalismo Usa di pubblicare documenti estremamente scottanti, anche quando la loro provenienza fosse discutibile, perché magari erano stati rubati o comunque prelevati illegalmente.

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La sentenza arriva pochi giorni dopo la testimonianza di Robert S. Mueller davanti al Congresso sullo scandalo Russiagate. La pubblicazione delle email dei Democratici da parte di WikiLeaks che, durante la campagna elettorale del 2016, pubblicò centinaia di migliaia di email interne sia del Comitato Nazionale dei Democratici (DNC) sia del capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, è da sempre l’episodio cruciale al centro del Russiagate.

A citare in Tribunale Julian Assange e WikiLeaks era stato proprio il Comitato Nazionale dei Democratici Usa che un anno fa aveva presentato una denuncia penale contro quella che i Dem sostenevano fosse una cospirazione tra la Russia, la campagna elettorale di Donald Trump e WikiLeaks per interferire sulle elezioni a danno della Clinton.

A parte Donald Trump stesso, i Democratici avevano denunciato tutti: la campagna di The Donald, il figlio Donald Trump Jr, il misterioso professore Joseph Mifsud – avvistato per l’ultima volta a Roma e poi sparito nel nulla – il controverso consigliere di Trump, Roger Stone, e altri personaggi finiti al centro del Russiagate. L’accusa, secondo l’azione legale dei Democratici, era quella di aver cospirato e diffuso materiale particolarmente dannoso per la campagna elettorale di Hillary Clinton.

La sentenza di oggi, però, assolve WikiLeaks per la pubblicazione delle email, che rivelarono indubbiamente storie importanti, come il fatto che il Comitato dei Democratici non agì affatto in modo neutrale durante le primarie e boicottò Bernie Sanders a favore della Clinton, una rivelazione questa che portò alle drammatiche dimissioni del capo della campagna dei Dem, Debbie Wasserman Schultz, proprio alla vigilia della Convention democratica.

E le email di Podesta rivelarono anche per la prima volta i discorsi a porte chiuse della Clinton ai giganti della finanza americana. Pochi mesi prima delle elezioni, il New York Times aveva chiesto invano a Hillary Clinton di rendere pubblici “i discorsi lautamente pagati tenuti di fronte alle grandi banche, che molti americani della classe media ancora incolpano per i loro problemi economici”.

L’assoluzione di WikiLeaks è indubbiamente dovuta anche al fatto che organizzazioni con una grande reputazione in tema di libertà di stampa si sono costituite in tribunale a difesa del diritto di Julian Assange e di WikiLeaks di pubblicare documenti, anche quando la loro provenienza sia dubbia, purché siano veri e nel pubblico interesse. L’American Civil Liberties Union (Aclu), il Reporters Committee for Freedom of the Press (RCFP) e il Knight First Amendment Institute della Columbia University, infatti, hanno supportato sia Assange che WikiLeaks in tribunale, difendendo il loro diritto alla pubblicazione, “nonostante i vizi con cui i materiali siano stati ottenuti, purché chi li divulga non abbia partecipato ad alcun illecito nell’ottenerli”, ha chiarito il giudice. – [FONTE]
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No sequestri cannabis con thc meno 0,5% Primo provvedimento dopo Cassazione, per giudici serve norma

22/06/2019 – La cannabis light non può essere sequestrata “preventivamente” se non viene provato che il livello di Thc supera lo 0,5%. Lo stabiliscono i giudici del tribunale del Riesame di Genova dopo la sentenza della Cassazione dello scorso 30 maggio. Si tratta della prima pronuncia dopo il caso sollevato dagli Ermellini che vietavano la vendita di cannabis light. La vicenda nasce dal sequestro a un negozio di Rapallo di infiorescenze, flaconcini di oli, confezioni di tisane e foglie a base di canapa sativa. Il commerciante si era opposto rivolgendosi al Riesame. I giudici gli hanno dato ragione disponendo la restituzione della merce.

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Per i giudici, manca una norma che stabilisca quale sia la percentuale di principio attivo che rende un prodotto psicotropa. La Cassazione ha stabilito che possono essere venduti prodotti contenenti cannabis ma privi di capacità drogante. Una circolare fissa il limite di Thc all’0,5%. Nel dubbio, il pm non può sequestrare la merce ma prelevare campioni da analizzare. – [ANSA]
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Onichini il macellaio che sparò al ladro, confermata condanna a quasi 5 anni

12/06/2019 – Ci sono voluti sei anni per arrivare a una sentenza di secondo grado per il caso di Walter Onichini, il macellaio di Legnaro (Padova) che il 22 luglio del 2013 sparò al ladro che insieme a altri complici gli era entrato in casa. Il malvivente rimase in coma in ospedale, ma si riprese. Oggi, nonostante la nuova legge sulla legittima difesa, i giudici della Corte d’Appello di Venezia hanno respinto la richiesta di assoluzione che il procuratore generale Giancarlo Buonocore aveva chiesto il 2 aprile scorso. Il macellaio padovano venne condannato il 18 dicembre 2017 in primo grado a una pena di 4 anni e 11 mesi, con il pagamento delle spese legali e una provvisionale, a titolo di risarcimento, di 25 mila euro per la famiglia del ladro. Elson Ndreca, albanese, venne a sua volta condannato a tre anni e 8 mesi per quel tentato furto, tuttavia è riuscito a fuggire, ma i suoi legali hanno avviato una causa civile al macellaio chiedendogli 324 mila euro di danni.

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Quella notte Onichini e la moglie si svegliarono di soprassalto per alcuni rumori sentiti in giardino. L’uomo uscì dal terrazzo della camera da letto, che si affacciava sopra al piccolo piazzale in cui era parcheggiata la sua auto. Quando vide la macchina muoversi prese il fucile e sparò due colpi, uno mentre il ladro usciva dalla macchina, probabilmente per scappare. Una volta in auto, spostò l’albanese sul lato passeggero, aprì il cancello e uscì verso i campi vicini. «Volevo portarlo in ospedale», era stata la sua versione. Ma in ospedale il macellaio non arrivò mai, abbandonò il ladro a circa un chilometro da casa, in una strada sperduta tra i campi, poi a casa chiamò i carabinieri. L’albanese venne trovato quasi subito: se l’ambulanza non fosse arrivata in tempo sarebbe morto dissanguato. Il macellaio venne subito accusato di tentato omicidio fino alla sentenza di primo grado.

La Lega ha fatto di questo come di altri casi lo spunto per ‘allargare’ le maglie della legittima difesa, fino all’approvazione della recente legge. Il 2 aprile scorso, quando in corte d’Appello a Venezia è giunto l’appello per Onichini, la legge non era ancora stata approvata, tuttavia il pg Buonocore ha fatto leva sulle disposizioni legislative vigenti, sostenendo che il tentato omicidio non c’era, al massimo Onichini si poteva incolpare di un eccesso colposo di legittima difesa putativa, indotto a sparare perché riteneva che la sua vita fosse in pericolo, derubricando il reato a lesione colposa, perseguibile su querela da parte del ladro, che però non fu mai presentata. La versione della procura generale però non è stata accolta. Per Onichini «a questo punto in Italia è meglio fare i delinquenti» ha commentato. Il suo legale Ernesto de Toni ha già annunciato l’impugnazione. E i parlamentari veneti della Lega parlano di «sentenza incomprensibile». – [FONTE]
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Cannabis light fuori legge: fa discutere la sentenza della Cassazione

01/06/2019 – Cannabis: da ieri ne è proibita la vendita. Come mai? Partiamo dall’inizio: nel 2016 la legge 242 prevedeva la vendita libera di prodotti “a basso livello di THC”, cioè del principio attivo associato all’effetto stupefacente della marijuana. In Italia si aprono centinaia di negozi che vendono cannabis light con un giro d’affari di circa 150 milioni di euro l’anno.

Una legge permissiva?
Solo quattro mesi fa una sentenza della Cassazione interpreta la normativa vigente in modo morbido, dato che appunto la legge 242/2016 concedeva l’autorizzazione alla vendita di cannabis light, che contiene il principio attivo CBD, senza effetto stupefacente, ma che dovrebbe dare solo una sensazione di rilassatezza.

Ieri, su richiesta di un’altra sezione della Suprema Corte, che contestava la sentenza “permissiva” del gennaio 2019, le Sezioni Unite hanno pronunciato la parola definitiva sulla cannabis light: la normativa di riferimento dovrà essere il testo unico sugli stupefacenti; e cioè il Dpr 309/1990 che impedisce qualunque “coltivazione, produzione, fabbricazione, impiego e commercio di sostanze stupefacenti o psicotrope” e che permette solo la vendita di sostanze “in concreto prive di efficacia drogante”.

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Cannabis: niente Consulta
Il Procuratore Generale, all’udienza di ieri, aveva chiesto di rimettere gli atti della causa alla Corte Costituzionale, perché la stessa desse la sua opinione sull’apparente contrasto tra la legge 242/2016 e il Dpr 309/1990. Ma le Sezioni Unite della Cassazione hanno deciso diversamente, dando una interpretazione restrittiva della norma e tornando, in pratica, alla situazione precedente.

Il fatto è che la legge 242/2016 prevedeva “il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (cannabis sativa) quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita della biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione” (articolo 1). Lo stesso articolo sanciva anche la liceità delle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel catalogo comune delle varietà della specie di piante agricole che non rientrano nell’ambito di applicazione del Dpr 309/1990.

In sostanza l’altolà delle Sezioni Unite della Cassazione va nel solco delle dichiarazioni di Salvini, che pochi giorni fa prometteva di chiudere “uno per uno” tutti i negozi che vendono cannabis di qualunque genere. Ma prima che questo accada bisognerà vedere nel dettaglio le motivazioni della sentenza quando saranno pubblicate. E allora si potrà capire meglio il futuro di questo settore economico in grande espansione.

Cannabis buona o cattiva?
Il problema è che, secondo i botanici, tutta la canapa comune o cannabis sativa, se trattata opportunamente, può trasformarsi in sostanza stupefacente. Ignoranti i legislatori del 2016 o gli ermellini del 2019? Difficile stabilirlo.

Ed è un vero peccato perché la canapa, coltivata fin dai tempi dei Faraoni e diventata “illegale” solo da pochi decenni, è una pianta generosissima e molto utile. Come del maiale, della canapa non si butta niente. Serve per fare la carta e i tessuti. Sembra che abbia effetti anti tumorali e anti infiammatori.

Dalla canapa si possono ricavare fibre plastiche e concimi naturali. Agli inizi dell’era dell’automobile un prototipo della Ford T del 1923 era costituita da più del 60% di materiali che derivavano dalla canapa. Con la canapa si facevano mattoni, vernici, colle e rivestimenti. L’olio ricavato dai semi della canapa ha uso sia alimentare che come combustibile. I semi, macinati, danno una farina molto simile a quella del grano e sono usati come cibo sia in Russia che in molte cucine orientali. Dalla trasformazione dei semi si può ricavare un tipo di tofu, una margarina o la panna vegetale. Il latte dei semi ha un sapore simile alla nocciola.

Insomma, una pianta benedetta che il genio dell’uomo ha saputo trasformare nella sentina di tutti i mali. Robert Louis Stevenson si sarà ispirato proprio alla canapa per il suo famoso romanzo “Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde”? – [ilmiogiornale.net]
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Roma, il giudice, motivazione sentenza: “Raggi fu vittima di un raggiro dei fratelli Marra. Che agirono a sua insaputa”

09/05/2019 – La sindaca di Roma, Virginia Raggi, “è stata vittima di un raggiro ordito dai fratelli marra in suo danno, che si è svolto con la compartecipazione incolpevole dell’assessore Meloni e dell’avvocato De Santis”. Lo ha scritto il giudice monocratico, Roberto Ranazzi, nelle oltre 300 pagine di motivazioni della sentenza che lo scorso 10 novembre aveva assolto il primo cittadino della Capitale dall’accusa di falso ideologico, in relazione alla promozione di Renato Marra a capo della direzione turismo di Roma Capitale e il cui fratello Raffaele, all’epoca dei fatti, era a capo del personale del Campidoglio.

“Sotto l’aspetto formale la nomina di Renato Marra non offre alcuna deviazione dalla procedura di interpello”, ma la sua candidatura “era stata pianificata dai due fratelli Marra molti mesi prima già dalla prima metà di luglio 2016, quale alternativa al diniego del sindaco Raggi per la nomina di Renato come il capo o vice capo della polizia locale di Roma Capitale”.

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Secondo il giudice, i due fratelli “hanno operato al fine di eludere il predetto diniego del sindaco Raggi strumentalizzando l’assessore Meloni, con cui Renato Marra (su consiglio del fratello), in qualità di responsabile del Gssu (gruppo sicurezza sociale urbana della polizia locale di Roma Capitale, ndr) aveva opportunamente intrapreso una fattiva collaborazione nella lotta all’abusivismo commerciale. I fratelli Marra, come appare evidente dagli sms del periodo antecedente e successivo alla nomina in questione, hanno chiaramente agito all’insaputa del sindaco”.

“Ero certa della mia innocenza e ho sempre avuto fiducia nel lavoro della magistratura. Mi ha sostenuto l’affetto di tanti miei concittadini. L’unico modo che ho per ripagarli è invece quello di continuare a lavorare per loro e con loro. Cambieremo questa città insieme. Faremo rinascere Roma con il nostro impegno, la nostra determinazione, il nostro amore. Grazie”, ha scritto tra l’altro la sindaca Raggi sui social. – [Repubblica.it]
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All’avvocato che fa perdere un diritto legittimo all’assistito non spetta il compenso. La decisione della Cassazione.

20/04/2019 – Escluso il compenso all’avvocato che fa perdere un diritto legittimo all’assistito a causa della sua negligenza. Lo ha stabilito una recente decisione della Corte di Cassazione che conferma quanto deciso nella sentenza di merito.

Nello specifico, i giudici della Corte di Cassazione hanno sancito che l’inadempimento professionale dell’avvocato, da cui deriva la perdita del diritto del suo assistito, vanifica l’attività difensiva svolta fino a quel momento. Per tale ragione all’avvocato non spetta alcun compenso.

Nessun compenso all’avvocato che fa perdere un diritto legittimo all’assistito: il caso di specie
La decisione della Corte di Cassazione prende le mosse dal ricorso proposto da un avvocato che si era visto negare il compenso dal giudice di merito perché la sua condotta negligente aveva fatto perdere un diritto legittimo al cliente.

La questione riguardava la stipulazione di un contratto preliminare di compravendita. Dunque, l’avvocato ricorrente aveva ottenuto la condanna al pagamento di 46.000 euro per i venditori inadempienti ed il sequestro conservativo dell’immobile a favore dell’assistito.

Tuttavia l’avvocato aveva omesso di depositare la sentenza entro il termine perentorio di 60 giorni e di chiedere l’annotazione del sequestro conservativo a margine della trascrizione. Per tale ragione il sequestro era diventato totalmente inefficace e i convenuti, nel frattempo, avevano alienato l’immobile.

A questo punto, l’assistito aveva iniziato un’azione legale contro l’avvocato per far valere in giudizio l’accertamento dell’inadempimento professionale. L’avvocato, invece, negando la sua negligenza, aveva proposto un’azione per l’accertamento del diritto di credito nei confronti dell’assistito (cioè 5.000 euro per lo svolgimento dell’attività professionale).

Ma il giudice di merito ha condannato il difensore al pagamento di 46.000 euro e delle spese processuali di entrambi i giudizi.

Le argomentazioni della Corte di Cassazione

Dunque, il caso è arrivato innanzi alla Corte di Cassazione che ha sancito l’infondatezza del ricorso da parte dell’avvocato.

Infatti, dicono i giudici della Suprema Corte, l’avvocato avrebbe dovuto provvedere alla conversione del sequestro conservativo in pignoramento, evitando così l’alienazione dell’immobile a terzi. Dunque, l’eccezione proposta dall’avvocato per “impossibilità della prestazione” sarebbe priva di fondamento,

In conclusione, gli ermellini hanno applicato il seguente principio di diritto:

“L’inadempimento dell’esercente la professione legale che abbia determinato la definitiva perdita del diritto, rende del tutto inutile l’attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, dovendosi ritenere la sua prestazione totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, con la conseguenza che in tal caso non è dovuto alcun compenso al professionista.”

Così citando un precedente decisione, Cassazione, III Sez civ., sentenza numero 4781, 26 febbraio 2013. – [Fonte Money.it]
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Presunte tangenti Eni in Nigeria, giudice: “I vertici avallarono illeciti”. Descalzi è a processo

17/12/2018 – Il gup Giusy Barbara nelle motivazioni delle condanne in rito abbreviato per i due presunti mediatori: “Impressionante sequenza di anomalie” che non trovano “alcuna logica giustificazione se non negli illeciti accordi spartitori”

La “procedura di acquisto” del giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria da parte di Eni, è stata “costellata” da “un’impressionante sequenza di anomalie”, che “necessariamente devono essere state avallate dai vertici della società e non trovano alcuna logica giustificazione se non negli illeciti accordi spartitori”. A scriverlo è il gup Giusy Barbara nelle motivazioni delle condanne in rito abbreviato per corruzione internazionale a due presunti mediatori. Nella tranche dell’inchiesta a dibattimento è imputato, tra gli altri, l’ad Claudio Descalzi.

La sentenza sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo
A non lasciare alcun dubbio, secondo il giudice, è la “sequenza degli eventi descritti”, come evidenziato nelle oltre 300 pagine di motivazioni delle condanne del 20 settembre scorso a quattro anni di reclusione per Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, presunti mediatori, nigeriano e italiano, “e il contenuto delle comunicazioni”. Il verdetto con rito abbreviato dello scorso settembre è la prima sentenza a Milano sulla vicenda della presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni versata, secondo l’accusa, da Eni e Shell a politici e burocrati della Nigeria e, si ipotizza, anche a manager del gruppo italiano per l’acquisizione del giacimento. La decisione era arrivata all’indomani dell’assoluzione per la presunta tangente versata in cambio di commesse in Algeria, della compagnia petrolifera italiana, del suo ex ad Paolo Scaroni e dell’attuale numero tre, Antonio Vella, per la quale, invece, sono stati condannati Saipem e i suoi ex manager.

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Gup: “Ai manager 50 milioni di dollari di tangenti”
È “provato al di là di ogni ragionevole dubbio”, continua il giudice, “che effettivamente nell’ambito dell’operazione di acquisto della licenza di prospezione petrolifera Opl 245 alcuni manager del gruppo petrolifero italiano abbiano progettato e verosimilmente realizzato” il “piano criminoso di incrementare il prezzo pagato da Eni in modo da ottenere” la “restituzione in nero di una consistente somma di denaro, nell’ordine di 50 milioni di dollari, da spartirsi tra loro”. Il gup rimanda poi “l’individuazione dei singoli responsabili di questa condotta illecita, perpetrata ai danni di Eni dai suoi dirigenti coinvolti nell’affare Opl 245” alla tranche dell’inchiesta che prosegue con rito ordinario. Al gup infatti “non compete, non essendo costoro imputati in questo procedimento celebrato con rito abbreviato”.

Imputati l’ad Descalzi e il suo predecessore Scaroni
Per il caso Eni-Nigeria sono imputati con rito ordinario (processo in corso) l’attuale numero uno di Eni Descalzi (all’epoca dei fatti ‘numero due’), il suo predecessore Scaroni, le stesse Eni e Shell, e altre 11 persone, tra cui anche Luigi Bisignani. Per il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, titolari dell’indagine, sarebbe stato Scaroni a dare “il placet alla intermediazione di Obi”, presunto mediatore della maxi tangente, “proposta da Bisignani” e Descalzi, all’epoca dg della divisione Exploration & Production Eni, sarebbe stato invitato “ad adeguarsi”. Sia Scaroni che Descalzi, secondo l’accusa, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano Jonathan Goodluck “per definire l’affare”. Descalzi, secondo quanto scritto dal giudice nelle motivazioni, sarebbe stato “prono di fronte alle pretese di Luigi Bisignani, cioè di un privato cittadino il cui nome era già emerso in alcune delle inchieste più scottanti e note della storia giudiziaria italiana”. – FONTE
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20 pusher stranieri in manette: un giudice li fa uscire in 48 ore. Salvini: va cambiata la legge

14/12/2018 – Venti pusher in manette a Pisa; droga sequestrata e il punto di spaccio – un centro scommesse nel centro cittadino – chiuso e sigillato per 15 giorni: poi una sentenza del giudice annulla tutto e rimette in libertà gli spacciatori appena beccati. Operazione anti-droga vanificata e pisani furibondi.

Pisa, 20 pusher arrestati e tornati a piede libero in 48 ore
Gli spacciatori arrestati e poi subito tornati a piede libero sono di varie nazionalità: nel nutrito gruppo fermato ci sono infatti nordafricani, senegalesi, gambiani e, tanto per non farsi mancare nulla, un israeliano e un thailandese. Il loro raggio d’azione si è concentrato fin qui nella zona fra la stazione ferroviaria di Pisa e corso Italia, che rappresenta il punto d’incontro della città, meta gettonata per passeggiate e shopping.

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E da qualche tempo a questa parte, grazie anche al centro scommesse limitrofo in via Gramsci – utilizzato all’insaputa dei gestori – anche luogo di riferimento e di ritrovo di spacciatori e consumatori di droga. Un caso balzato agli “onori delle cronache” su cui è intervenuto direttamente il ministro dell’Interno, Matteo Salvini che, a riguardo, ha sottolineato: «L’altro giorno le Forze dell’Ordine hanno ripulito Pisa dagli spacciatori: 22 arresti (tutti giovani stranieri) e quasi trenta indagati. Vendevano droga anche vicino alle scuole. Purtroppo lo sforzo è stato inutile, perché nel giro di poche ore questi delinquenti sono stati rimessi tutti in libertà».

Le dichiarazioni di Salvini sul caso: «La legge va cambiata»
Poi, dichiarandosi ancora una volta dalla parte delle forze e dell’ordine, da ministro dell’Interno ha voluto ringraziare «una volta di più le donne e gli uomini in divisa che svolgono con eroismo e professionalità il proprio lavoro. E sono felice di aver finanziato “Scuole sicure” per cacciare i pusher che offrono morte agli studenti e ai nostri figli. Da senatore ho presentato una proposta di legge per aumentare di parecchio le pene agli spacciatori. Non mollo e non mi rassegno: le leggi, quando sono sbagliate e troppo morbide, vanno corrette. È l’ora della tolleranza zero». – [IlSecolodItalia.it]
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