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Il Pd querela Luigi Di Maio: “Diffamazione per l’inchiesta sui minori di Bibbiano”

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18/07/2019 – Le dichiarazioni demenziali del vicepremier Di Maio il quale collega l’identità del Pd alle vicende drammatiche relative all’inchiesta sui minori che coinvolge il comune di Bibbiano, confermano solo il livello di disperazione di un personaggio che ha fallito il suo obiettivo e scarica la sua bile sugli avversari politici”. Il Partito Democratico ha deciso di querelare il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio, che ha attribuito in diverse occasioni responsabilità ai dem per il caso dei minori di Bibbiano.

“Non solo da subito abbiamo denunciato la gravità dei fatti portati alla luce dall’inchiesta della Procura di Reggio Emilia ma è fin troppo ovvio che, qualsiasi sia l’esito dell’indagine rispetto alle responsabilità di un sindaco accusato di abuso d’ufficio, accostare a fatti gravissimi l’identità del Pd è un atto irresponsabile e falso. È Di Maio, con il suo atteggiamento sprezzante, volgare e ottuso che strumentalizza e utilizza una vicenda drammatica che dovrebbe tenere unite tutte le istituzioni. Ma questo comportamento è solo l’ennesima conferma della pochezza di alcuni individui che stanno governando l’Italia. Il Pd ha dato mandato ai propri legali di sporgere querela per diffamazione e richiesta di risarcimento danni in sede civile”.

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“Noi con Luigi Di Maio non vogliamo avere nulla a che fare, per usare le sue parole. Molto diverse oggi da quelle che utilizzava un anno fa, quando elemosinava i nostri voti per andare al governo. Le nostre parole sono invece le stesse di allora: Lega e M5s sono la stessa cosa, l’opposto della sinistra. E a loro ci si può solo opporre”, lo ha detto Matteo Orfini, deputato dem, sul suo profilo Facebook. “Con uno che si comporta in modo così indegno non solo non ci si fa un governo insieme. Ma non gli si stringe nemmeno la mano. Fossi ancora presidente del Pd avrei dato immediato mandato a denunciarlo e sono certo che Nicola Zingaretti e Paolo Gentiloni faranno lo stesso. Di Maio sa bene la verità, con quel dramma orribile il Pd non c’entra. Al sindaco di Bibbiano sono contestati reati amministrativi e non le cose orribili e agghiaccianti di cui Di Maio incolpa il Pd”, ha aggiunto Orfini. “Ne dovrà rispondere e lo sfido a non avvalersi dell’immunità come invece ha fatto il suo degno compare Salvini”.

“Condivido Orfini per filo e per segno. Le frasi di Luigi Di Maio fanno semplicemente schifo”, ha scritto su Twitter il senatore Matteo Renzi, postando il link della pagina Facebook di Matteo Orfini.

Durante una diretta Facebook il vicepremier Di Maio aveva detto: “Io col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd”.

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Carola Rackete querela Matteo Salvini e chiede la chiusura delle pagine social: “Messaggi di odio”

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12/07/2019 – La capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, presenterà oggi venerdì 12 luglio alla procura di Roma una querela contro Matteo Salvini per “diffamazione aggravata” e “istigazione a delinquere”. Ai magistrati verrà anche richiesto di mettere sotto sequestro le pagine social del ministro dell’Interno, considerate il mezzo con cui il leader leghista avrebbe veicolato i suoi “messaggi di odio”.

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“La comunista tedesca, quella che ha speronato la motovedetta della Guardia di Finanza ha chiesto alla procura di chiudere le mie pagine Facebook e Twitter. Non c’è limite al ridicolo” ha replicato Matteo Salvini. Il legale, Alessandro Gamberini, presenterà un documento in cui sono riportate 22 offese con cui il titolare del Viminale si è indirizzato a Carola Rackete.

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Salvini: “Non vedo l’ora di guardare in faccia Carola Rackete in tribunale”
“Non vedo l’ora di guardarla in faccia una che ha provato a uccidere militari italiani”. Lo ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini a margine della sua visita al villaggio Coldiretti a Milano.
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La sindaca Raggi sta valutando di querelare l’ex ad di Ama Bagnacani per gli audio divulgati dall’Espresso

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19/04/2019 – “Attendiamo di leggere l’esposto presentato dall’ex ad di Ama, Bagnacani, per valutare se ci sono profili penali, come ad esempio la calunnia o la diffamazione, da parte dell’autore della denuncia”. E’ quanto ha detto Emiliano Fasulo, legale della sindaca di Roma, Virginia Raggi, in merito alla vicenda della conversazione con l’ex Ad di Ama, Lorenzo Bagnacani (nella foto), resa nota ieri dal settimanale L’Espresso.

La Raggi, ieri, aveva parlato di “audio rubati” in cui la sindaca afferma “quello che direbbe qualsiasi altro cittadino di Roma: me la prendo duramente con l’ex amministratore delegato dell’Ama perché ci sono i rifiuti in strada e non lo posso accettare”.

“Uso parolacce – aveva aggiunto – ma non me ne vergogno perché sono incazzata quando vedo chi pensa a prendere i premi aziendali piuttosto che a pulire la città. Perché questo è quello che si ascolta in quegli audio. Nessuna pressione ma solo tanta rabbia per chi non ha fatto bene il lavoro per il quale era pagato. Si pretendeva che approvassi un bilancio con il quale i dirigenti di Ama avrebbero avuto centinaia migliaia di euro in più”. – [LaNotiziaGiornale.it]
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La Stampa, Calabresi e Iacoboni condannati a risarcire Silvia Virgulti per una notizia falsa e diffamatoria

15/11/2018 – La Stampa di De Benedetti il 21 luglio del 2015 pubblicò un articolo dal titolo “La zarina del M5S choc sui migranti: ‘Diamo sfogo a rabbia e paura’” a firma di Jacopo Iacoboni. Il giornalista è l’autore della famosa bufala su Beatrice Di Maio, che, a suo dire, sarebbe stata la chiave della fantomatica propaganda “grillina” su Twitter. In realtà Beatrice Di Maio era lo pseudonimo della moglie di Brunetta.

Nell’articolo di Iacoboni, Silvia Virgulti, che era all’epoca ed è tuttora una dei componenti dello staff di comunicazione del gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle, veniva falsamente accusata di cinismo, di aver millantato titoli di studio “di cui non si ha traccia” e, più in generale, di prendere decisioni politiche e di aver favorito le nomine di alcuni suoi amici all’interno del MoVimento stesso. L’articolo aveva l’obiettivo di colpire il MoVimento 5 Stelle con un sapiente mix di illazioni e falsità, e con un uso distorto della stampa, che dovrebbe, invece, essere il cane da guardia della democrazia. Purtroppo questo è solo uno dei molteplici esempi di attacchi al MoVimento, basta pensare al trattamento a cui è stata sottoposta Virginia Raggi negli ultimi due anni fino al momento della sua assoluzione.

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Quando facciamo queste denunce e critichiamo il comportamento di tanti giornalisti nei confronti del MoVimento 5 Stelle, veniamo tacciati di essere contro la libertà di informazione. Non è così, siamo contro le falsità che screditano le persone! Di questa battaglia Silvia si è fatta carico, sostenendo i costi e lo stress di un procedimento contro l’editore e il direttore responsabile della Stampa che allora era Mario Calabresi – oggi direttore di Repubblica, l’altro giornale di De Benedetti – insieme a Iacoboni. Il tempo le ha dato ragione: dopo 3 anni, La Stampa e Iacoboni sono stati giudicati colpevoli di avere diffamato Silvia, alla quale sono stati condannati a risarcire i danni (purtroppo solo in parte ristorabili, dato che nel frattempo l’articolo diffamatorio, presente anche on-line, è stato ampiamente consultato, ripubblicato e ripreso) e a rifonderle le spese legali che ha dovuto sostenere.

Naturalmente alla condanna non è stato dato da Iacoboni né da La Stampa lo stesso rilievo dell’articolo in questione. Da Iacoboni e da Calabresi, solitamente molto attivi sui social, neppure un tweettino di scuse. Silenzio totale. Le scuse non erano certo dovute ai sensi della condanna, ma forse erano dovute ai sensi dell’educazione e del rispetto umano. Iacoboni continua a scrivere e il suo giornale continua a riempire pagine invocando la libertà di stampa. La verità è che hanno scritto cose false per screditare una persona e il MoVimento 5 Stelle. Questo gli è costato una condanna e un risarcimento, ma non sono riusciti a pronunciare pubblicamente la parola “scusa”.

Ci sono altre cause contro le diffamazioni dei giornali portate avanti da portavoce del MoVimento 5 Stelle. Per arrivare alla verità giudiziaria ci vogliono anni. Per Silvia ce ne sono voluti tre. Ma prima o poi tutti i nodi verranno al pettine e chi ha sbagliato pagherà. Per le scuse e per dare rilievo alle notizie che smentiscono le loro falsità invece bisognerà attendere molto di più. di Movimento 5 stelle
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Don Biancalani querela Salvini: «Ha chiamato “clandestini” i miei migranti»

06/11/2018 – Diffamazione aggravata a mezzo stampa, calunnia e omissione di atti d’ufficio: sono i reati che vengono contestati al ministro degli Interni Matteo Salvini nella querela presentata da don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro, a Pistoia, noto per le sue posizioni immigrazioniste, divenuto “famoso” per la foto dei migranti in piscina e più d’una volta balzato alle cronache per il fatto che giovani stranieri ospitati nel suo centro d’accoglienza erano stati trovati in possesso di droga.

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A dare notizia della querela, depositata alcuni giorni fa, è stato il quotidiano Il Tirreno. In particolare vengono contestati al ministro due commenti pubblicati il 28 agosto scorso, prima sul proprio profilo Facebook e poi su Twitter, a seguito della notizia della chiusura del centro di accoglienza di Vicofaro per motivi di sicurezza. «Tempi duri per il prete che ama attaccare me e circondarsi di presunti profughi africani, ancora un po’ e la canonica scoppiava… Chiuso», aveva scritto Salvini. Poco dopo in un tweet il ministro aveva parlato non più di «presunti profughi», ma di «clandestini africani». In entrambi i post la foto ritraeva il parroco abbracciato a un migrante.

Nella querela – spiega Il Tirreno – don Biancalani, assistito dall’avvocata Elena Baldi, afferma che le persone ospitate nella sua parrocchia non sono né «presunti profughi né clandestini», ma migranti censiti dalla prefettura. Biancalani ha querelato, sempre per il reato di diffamazione, anche 22 utenti che hanno lasciato insulti e offese nei suoi confronti sotto il post del ministro. – [IlSecolodItalia.it]
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Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo

23/10/2018 – Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri.

“In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta.

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Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi“. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”.

Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settore outlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio. – FONTE
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L’ultima della collezione: nuova condanna per diffamazione su Gomorra per Saviano & Mondadori

12/08/2018 – Roberto Saviano e la diffamazione. Lo scrittore dovrà rivedere molto della sua strategia comunicativa, anche e sopratutto nei confronti del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, fatto oggetto negli ultimi tempi di frasi che vanno al di là del legittimo dritto di critica e non aver rettificato. Una settimana fa lo scrittore pubblicava su Instagram la foto di un murales che lo ritraeva dietro le sbarre con la scritta; “Sogno di un ministro in una notte di mezza estate” commentandola divertito:


Ora Saviano, viene condannato per Gomorra. Il Giudice, manca modifica passaggio diffamatorio per imprenditore. Per non aver rettificato il passaggio del libro ‘Gomorra’ in cui si legge che Vincenzo Boccolato, in realtà imprenditore incensurato che vive all’estero, fa parte di un clan camorristico con un ruolo non marginale in un traffico di cocaina, Roberto Saviano e la Mondadori Libri sono stati condannati a versare in solido 15 mila euro allo stesso imprenditore diffamato e già risarcito con 30 mila euro quattro anni fa per via di una sentenza diventata definitiva. Lo rendono noto gli avvocati Alessandro Santoro, Sandra Salvigni e Daniela Mirabile, legali di Boccolato, precisando che il provvedimento, depositato tre giorni fa, è stato firmato dal giudice della prima sezione civile di Milano Angelo Claudio Ricciardi.

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In sostanza Saviano e la casa editrice di Segrate, che dovranno anche pagare le spese processuali, come si evince dall’ordinanza, nonostante la precedente condanna hanno ritenuto di continuare a ristampare la stessa edizione, dal 28 novembre 2013, data della sentenza di primo grado, al gennaio 2016, senza depurarla delle espressioni diffamatorie. Per il giudice le riedizioni del best seller, con il passaggio ‘incriminato’, sono da ritenere un “nuovo illecito diffamatorio” con “caratteristiche del tutto analoghe a quelle già accertate in sede civile” non essendo stato “tempestivamente provveduto all’adozione delle necessarie precauzioni a tutela della reputazione del Boccolato”: Precauzioni che sono o eliminare le affermazioni ritenute “dannose” sotto il profilo patrimoniale e non patrimoniale per l’imprenditore o aggiungere una postilla per informare i lettori della sentenza di condanna di qualche anno fa. – [ANSA]
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Salvini ha querelato Saviano. Ecco cosa rischia lo scrittore

22/07/2018 – Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha querelato Roberto Saviano. La denuncia su carta intestata del Viminale è stata depositata nella giornata del 19 luglio 2018.

Il noto giornalista è stato querelato, si legge nei documenti, per diffamazione tramite una serie di post social (allegati alla denuncia) e dichiarazioni che, secondo il ministro, vanno oltre il diritto di critica e la fisiologica polemica politica.

Una querela a cui Saviano ha risposto con un altro post su Facebook in cui lo scrittore ha chiesto “di essere oggi con me in questa battaglia: dietro l’angolo c’è la Russia di Vladimir Putin, modello del ministro della Mala Vita che, come è noto, ha spesso portato alle estreme conseguenze il contrasto al dissenso”.

Ovviamente è presto per parlare di processo, condanne e via dicendo (ancora non si sa chi è il magistrato incaricato delle indagini…). Ma in tanti si sono domandati: cosa rischia Saviano?

Il reato di diffamazione
Dottrina e giurisprudenza maggioritaria qualificano la diffamazione quale reato di danno, per la cui configurabilità, è necessaria la realizzazione dell’evento inteso quale percezione e comprensione dell’offesa da parte di più persone.

Il requisito della pluralità di soggetti risulta soddisfatto in presenza anche non contestuale di almeno due persone.

Le aggravanti comportano un aumento della pena edittale prevista dall’art. 595 c. 1 c.p. (reclusione fino ad un anno o multa fino a 1.032 euro) nei seguenti casi:

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attribuzione di un fatto determinato (c. 2): la maggiore credibilità dell’offesa giustifica la reclusione fino a due anni o la multa fino a 2.065 euro;
offesa arrecata a mezzo stampa, pubblicità, atto pubblico (c. 3): l’intensa capacità diffusiva delle vie di comunicazione impiegate giustifica la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a 516 euro;
offesa arrecata a corpo politico, amministrativo, giudiziario, sua rappresentanza, autorità costituita in collegio (c. 4): la collettività degli enti offesi giustifica l’incremento di un terzo rispetto alla pena base.
La diffamazione a mezzo stampa
Quando l’offesa all’altrui reputazione viene posta in essere con il mezzo della stampa, assume particolare rilievo il bilanciamento effettuato dal legislatore tra il reato in questione da un lato, e la libertà della manifestazione del proprio pensiero tutelata dagli artt. 21 Cost. e 51 c.p. dall’altro.

Il reato di diffamazione viene “scriminato” quando la condotta rispetta i seguenti limiti:

Rilevanza del fatto narrato.
Verità dei fatti narrati o criticati.
Continenza delle espressioni usate: le modalità espressive, pur offensive, devono essere pacate e contenute.
Condanne
Diffamazione: reclusione fino a 2 anni e multa fino a 2.065 euro.

Diffamazione mezzo stampa o con mezzi pubblicitari o in atto pubblico: reclusione da 6 mesi a 3 anni o una multa non inferiore a 516 euro.

Pene ancora più alte – aumentate di un terzo rispetto alla pena base – se l’offesa è rivolta a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, una sua rappresentanza o un’autorità costituita in collegio. – FONTE
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Ultima ora: Riina complice di Di Matteo. Condannati Sgarbi e Sallusti. Guardate e diffondete!

18/05/2018 – Il giudice monocratico di Monza Bianchetti ha condannato Vittorio Sgarbi a sei mesi di reclusione per avere diffamato, sul Il Giornale, il magistrato palermitano Nino Di Matteo. A tre mesi, per omesso controllo, è stato condannato il direttore del quotidiano Alessandro Sallusti. Entrambi hanno avuto la sospensione della pena.
L’articolo ritenuto diffamatorio è stato pubblicato nella rubrica Sgarbi Quotidiani il 2 gennaio del 2014. Entrambi dovranno risarcire i danni al pm, ora in servizio alla Dna, da liquidarsi in sede civile. Il giudice ha comunque concesso a Di Matteo, difeso dall’avvocato Roberta Pezzano, una provvisionale immediatamente esecutiva di 40mila euro. Sia Sgarbi che Sallusti hanno avuto le attenuanti generiche.

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Nell’articolo incriminato, intitolato “Quando la mafia si combatte soltanto a parole”, Sgarbi scriveva: “Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione”. E ancora: ” C’è qualcosa di inquietante nella vocazione al martirio (del magistrato ndr)” e “gli unici complici che ha Riina sono i magistrati”. (IlFattoQuotidiano.it)
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Arrivata la condanna per diffamazione a Vittorio Sgarbi

(ANSA) 22/01/2018 – Contrariato da un articolo sul Corriere della Sera che criticava il Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2011, da lui curato, il critico d’arte e politico Vittorio Sgarbi prima ha iniziato a scrivere sms con parolacce e offese all’autore del pezzo pubblicato, il giornalista Sebastiano Grasso, e poi in un articolo su Il Giornale, ha usato nei confronti del recensore considerazioni da lui ritenute diffamatorie.

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Ora il Tribunale di Milano, giudice Nicola Di Plotti, in sede civile, lo ha condannato a una pena pecuniaria per ingiuria e diffamazione a mezzo stampa.
E inoltre alla pubblicazione, a proprie spese, di un estratto della sentenza sul Corriere della Sera che avverrà domani. La notizia è stata resa nota dall’avvocato Biagio Cartillone, patrocinante di Grasso già responsabile delle pagine dell’arte sul quotidiano di via Solferino, che ha prodotto integralmente la sentenza.





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