Totò Riina è morto. E il boss di Cosa Nostra porta con sé tutti i suoi segreti

17/11/2017 – L’immagine sanguinaria di Totò Riina ha fatto da sfondo alla Sicilia per oltre quarant’anni. La sua ombra si è allungata su tutte le stragi mafiose e sui delitti eccellenti e molti misteri verranno sepolti con lui nella tomba. Fino al giorno della sua morte è rimasto il capo di Cosa nostra, unico e indiscusso dagli anni Settanta fino ad oggi, trasformando la mafia siciliana dai vecchi modi felpati e sanguinari a organizzazione terroristica-mafiosa che è arrivata pure a far la guerra allo Stato.

Attraverso vecchie immagini ormai ingiallite, che conducono alla fine degli anni Settanta, è possibile calarsi in una Sicilia d’epoca dove si possono contestualizzare uomini e fatti e anche sensazioni di una società che in gran parte non sapeva o non voleva riconoscere i mafiosi. Ma ci conviveva. Molti lo hanno fatto per convenienza e altri invece per paura.

La storia di Riina è soprattutto la storia di un gruppo di picciotti di Corleone, malridotti e spietati allo stesso tempo, che danno la scalata alla gerarchia di Cosa nostra, che fino ad allora aveva le sue regole, le sue leggi e una sia pur distorta moralità.

Teorico della violenza totale e dell’inganno sistematico, all’interno di un progetto lucidissimo quanto folle, massacro dopo massacro, Riina spazza via l’organigramma eccellente del parlamento mafioso. Il capo corleonese cancella le regole a colpi di tritolo e come ha sostenuto il pentito Tommaso Buscetta, soltanto un potere superiore, una “entità”, è riuscita ad assicurargli una latitanza che si è protratta per 24 anni.

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Una latitanza serena. Riina l’ha condivisa con la moglie, Ninetta Bagarella, e i quattro figli: Maria Concetta, nata nel 1974, Giovanni (1976), Salvatore Giuseppe (1977) e Lucia (1980). Tutti partoriti in una clinica di Palermo (storia incredibile per un latitante di mafia ricercato da tutti) e registrati all’anagrafe. Come se fossero una famiglia normale.

Sono decine gli ergastoli a cui è stato condannato, fra questi anche quelli per l’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i loro poliziotti di scorta. Per il maxi processo a Cosa nostra i giudici hanno inflitto al boss il carcere a vita per una serie di delitti e stragi commessi a Palermo negli anni Ottanta: l’uccisione di Michele Reina, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Della Chiesa e la giovane moglie Emmanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo; e ancora per l’autobomba che uccise il consigliere istruttore Rocco Chinnici e i carabinieri che lo proteggevano.

Riina ha ordinato migliaia di omicidi, molti dei quali li ha pure eseguiti di persona. Un sanguinario che ha messo a ferro e fuoco la Sicilia. Come nell’estate di terrore del 1979 quando ha scatenato l’infermo mafioso lasciando sull’asfalto decine di cadaveri. Fra tutti quello di un servitore dello Stato, un grande poliziotto che stava con il fiato sul collo dei corleonesi. Era Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo. Oltre a lui Riina ha ucciso e fatto uccidere carabinieri, magistrati, sindacalisti, giornalisti, medici, funzionari regionali e politici, compreso un presidente della Regione siciliana. Vittime innocenti di un conflitto che lui ha voluto per conquistare potere e territori.

Nel 1981 la sua forza militare era ormai tale da consentirgli di eliminare a viso aperto tutti i capi delle famiglie che gli resistevano. Cominciò uccidendo il boss “don Piddu” Panno di Casteldaccia e poi il palermitano Stefano Bontate, l’uomo che offrì all’epoca protezione a Silvio Berlusconi: iniziò così la guerra di mafia, durata tre anni, che lasciò sulle strade del Palermitano circa mille morti.

Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, gli unici in grado di resistere militarmente ai corleonesi, assistettero al sistematico sterminio dei loro amici e parenti, mentre l’intera compagine mafiosa tremava davanti a Riina.

La sua latitanza è durata 24 anni e si è conclusa a Palermo il 15 gennaio 1993.

Quando il volto del capo dei capi apparve per la prima volta in televisione, il giorno dell’arresto, sorprese tutti: nessuno immaginava che un personaggio così goffo, piccolo, dagli occhi spiritati, potesse essere il mafioso feroce che le cronache giudiziarie avevano dipinto.

Riina nel 2010 parlando con suo figlio in carcere gli fa un lungo discorso. Riflette con il figlio sull’uccisione di Paolo Borsellino e critica l’atteggiamento di Giovanni Brusca che per l’attentato a Capaci ha svelato ogni retroscena, ma non ha saputo fornire indicazioni per la bomba del 19 luglio 1992. «Ho detto al magistrato che io il fatto di Borsellino l’ho saputo dalla televisione e non so niente».



A Milano durante un’udienza aveva fatto un’altra uscita, ancora più esplicita per prendere le distanze dall’ordigno di via Palestro, esploso nel luglio 1993 quando era già in cella: «Non ne so nulla, ma bisogna capire quale fosse il vero obiettivo che si voleva colpire».

Più in generale, nell’incontro con il figlio confida: «Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po’ tutti. Perché un po’ tutti? Perché l’ultima parola era sicuramente la mia e quindi l’ultima parola non si saprà mai. Ci devi saper fare nella vita. Quando hai una possibilità se la sai sfruttare, l’ultima parola non la dici; te la tieni per te e puoi fare tutto su quest’ultima parola: gli altri non sanno niente e tu sei anche un po’ “avvantaggiatello”. Questa è la vita a papà: purtroppo ci vogliono sacrifici, ho avuto la fortuna, in sfortuna, di trovarmi lì e sono andato avanti, certamente… sì. Non è di tutti eh?».

E poi spiega: «Perché anche loro sbagliano e sbattono la testa al muro, non sanno… non sanno, questi sbattono la testa al muro perché non sanno dove andare. Questo è un segreto della vita…».

I segreti. La sua storia ha cercato di raccontarla, a modo suo, durante le ore di passeggio in carcere trascorse con un altro detenuto, al quale pochi anni fa ha trasferito ricordi e analisi di fatti criminali e retroscena inconfessabili che sono state registrate dalle microspie degli investigatori. Parole di un boss che hanno aperto dubbi e ipotesi su quella che è stata la stagione dei corleonesi e su quello che è stato il ruolo di Riina in fatti ancora oggi misteriosi e poco chiari. Durante un colloquio in carcere con il figlio fatto sette anni fa lanciava un messaggio fondamentale, quello di essere ancora forte. «Vivo solo e non ho contatti con nessuno. Mi volevano annientare così. Hanno sperimentato questo fatto: “Lo mettiamo solo e lo annientiamo, lo distruggiamo, lo finiamo”. Devono sapere invece… che a me non mi distruggete».

Una tenuta sintetizzata con una frase: «Facciamoci questa galera… Io a ottant’anni non lo so quanto si può campare ancora, stai tranquillo che cerco di tirare avanti. Io sono qua, come mi vedi, tranquillo e sereno che forse nemmeno potete immaginare». Addio Riina. FONTE

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