15/12/2018 – La porta metallica che separa il corridoio del reparto Rianimazione chirurgica dell’Ospedale di Hautpierre dalla stanza dove Antonio Megalizzi ha combattuto tre giorni per sopravvivere all’attentato di martedì è uno scudo a tutela dell’indicibile. Il giornalista ventinovenne innamorato della radio e dell’Europa si è spento ieri pomeriggio oltre quella soglia, mentre Strasburgo riaccendeva le luci per celebrare la fine dell’incubo, la morte di Cherif Chekatt, il killer del Mercatino di Natale freddato giovedì sera dalle forze speciali francesi. Finché la notte glaciale non ha ibernato i ricordi, neppure un fiato ha attraversato quel confine invalicabile, non il dolore muto di mamma Annamaria e papà Domenico, non l’orizzonte spezzato della fidanzata Luana, non la sorella né la psicologa ormai intima che assiste questa famiglia disperata eppure carica dell’affetto di tanti amici giovani, la voglia di durare, una staffetta da raccogliere. «I genitori chiedono rispetto e silenzio» ripete il console Adolfo Barattolo. Mercoledì, dal palco di Parigi, l’hanno ricordato anche i Subsonica, in tournée nel nome dell’Europa e di chi, come Antonio, l’amava fin dai tempi del liceo.
L’onda lunga della follia omicida di Cherif Chekatt tiene ancora in alto mare Strasburgo. Mentre gli inquirenti passano al setaccio il passato dell’assassino per capire se abbia contato o meno su una rete terroristica di appoggio prima e dopo l’attentato costato la vita a quattro persone (suo fratello minore Sami, salafita come lui, è stato fermato in Algeria), il capoluogo alsaziano respira. Ieri mattina il Mercatino di Natale più antico d’Europa ha lavato il sangue tornando alla normalità, ma l’innocenza è perduta. Perfino la vigorosa Marsigliese intonata nel tardo pomeriggio dal presidente francese Macron davanti alle candele accese in piazza Klober suona triste: sette persone sono ancora ricoverate all’Hautpierre in condizioni gravissime, Antonio non c’è più, la frattura tra il centro opulento e le banlieue abitate dai reietti come Chekatt è sempre più profonda. «Grazie di essere qui per l’orgoglio della Francia» afferma di primo mattino il ministro degli Interno Christophe Castaner stringendo la mano ai coniugi Lavoine, artigiani del legno e decani del banco di fronte alla Cattedrale.
Dopo 48 ore di caccia all’uomo i turisti sono usciti dagli alberghi dove si erano rinserrati per paura, i negozianti hanno riacceso le vetrine: da adesso in poi, ha stabilito il sindaco, la chiusura sarà anticipata alle 20 anziché prolungarsi fino alle 22, ma la paura, per ora, è archiviata.
Strasburgo risorge con i suoi fantasmi. Nell’aria, con l’aroma delle caldarroste, si respira sollievo: c’è gente sulla colpitissima rue des Orfevres, in piazza Kleber, tra la grande statua del generale e il presepe sotto cui in queste ore si sono moltiplicati fiori e biglietti, comprese le foto di Kamal Naghchband, franco-afgano e musulmano, giustiziato davanti al figlio piccolo. C’è gente ovunque e i commercianti sperano di recuperare un po’ dopo aver perso in due giorni tra il 15 e il 30% del guadagno medio (il Mercatino di Natale con le sue 300 bancarelle e gli oltre 2 milioni di visitatori l’anno rende alla città circa 250 milioni di euro). Eppure le domande sono tutte lì: come si è radicalizzato Chekatt? Chi l’ha persuaso ad agire e gli ha assicurato almeno per un po’ copertura? Esiste una rete jiahadista in città?
«Vittime come voi»
«Abbiamo vinto una battaglia ma la guerra contro questi assassini è lunga» osserva l’architetto Matthiew deponendo una rosa sul selciato davanti alla cattedrale.«Basta farci il callo e sono già sconfitti, io che abito in banlieue li sento ogni notte spacciare e sparare» aggiunge il macellaio Claude che per l’occasione ha ribassato i salami, 3 per 10 euro.
Alla grande moschea Eyyub Sultan centinaia di persone pregano per l’ultimo saluto al compagno di fede Naghchband, uomini e donne usciti dai corridoi bui delle case popolari di Meinau che non sono andati in centro a salutare le autorità. «Noi musulmani siamo vittime come voi» ragiona il muratore algerino Rachid. Pace, chiedono i salmi. Nei capannelli radunati all’ingresso non c’è voglia di commentare: molti non credono alla consequenzialità dei fatti, la strage a poche ore dalla perquisizione di casa Chekatt, la fuga in taxi con un esercito di poliziotti alle calcagna, la morte che chiude la bocca a qualsiasi verità, è come se ogni attentato moltiplicasse frontiere, sospetti, rivendicazioni.
«Antonio aveva l’incubo dei muri» racconta in ospedale una ragazza che aspetta notizie di un amico comune, Bartek, un giornalista radiofonico di origine polacca che era con lui martedì: avevano cenato insieme al Les Savons d’Helene e insieme sono stati colpiti alla testa. Anche Bartek è appeso a un filo. (Ha collaborato Leonardo Martinelli) – [IlMessaggero.it]
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