07/02/2019 – I colossi dell’energia sono pronti a fare causa al governo per lo stop alle trivelle e alle trivellazioni deciso con un emendamento al DL Semplificazioni, sul quale l’esecutivo l’altro ieri ha posto la questione di fiducia. Hanno ceduto sull’Ilva e sul Tap, forse anche sulla Tav, ma sulle trivelle i Cinquestelle vanno diritti per la loro strada: nessun passo indietro, anche se la linea della fermezza potrebbe costare cara. I colossi dell’energia sarebbero pronti a fare causa allo Stato italiano per il blocco di 18 mesi alle attività di ricerca che entrerà in vigore con l’ormai imminente via libera del Parlamento al Decreto Semplificazioni varato dall’esecutivo lo scorso 15 dicembre. Stop che potrebbe estendersi a due anni se nel frattempo non venisse adottato un Piano per la Transazione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee per regolare l’intera materia. Molte compagnie temono però che il blocco non sia temporaneo ma diventi definitivo.
Governo consapevole dei rischi
Il Decreto Semplificazioni è stata già licenziato alla Camera e i termini per l’approvazione del Senato scadono il prossimo 12 febbraio. L’esecutivo gialloverde è consapevole del rischio di pagare penali alle compagnie energetiche per ripagare le perdite legate agli investimenti già sostenuti e ai mancati profitti, ma mostra sicurezza. “E’ una prospettiva che abbiamo già messo in conto e quantificato. La cifra indicata nel Decreto Semplificazioni è di 470 milioni di euro” ha spiegato il sottosegretario dello Sviluppo economico, Davide Crippa, del M5s.
L’errore dell’esecutivo
Ma i calcoli fatti dalle compagnie energetiche sono diversi. I danni potrebbero ammontare addirittura a svariati miliardi di euro. L’errore del governo sarebbe quello di sottostimare la quantità di risorse naturali contenute nei giacimenti italiani, come per esempio nel Fortuna Prospect, che si trova nel Mar Ionio davanti alle coste meridionali della Puglia. Per lo Stato si annuncia quindi una durissima battaglia legale, anche perché il numero delle compagnie colpite dallo stop è alto (decine) e tra loro compaiono anche veri e propri colossi come Eni, Shell, Total, Edison che non hanno certo carenza di mezzi finanziari per sostenere un lungo contenzioso.
La protesta di imprese, politici e sindacati
Alla spada di Damocle delle penali da pagare si aggiunge poi la veemente protesta delle imprese dell’indotto, dei politici e dei sindacati, che ieri si sono incontrati a Ravenna, la capitale italiana del business estrattivo, con oltre 40 piattaforme in mare e 10 mila addetti. “Bisogna fermare un provvedimento sbagliato e intempestivo adottato in una notte senza sentire le parti interessate” ha accusato senza mezzi termini il sindaco della città romagnola Michele De Pascale. “Serve una posizione pragmatica che nella transizione alle rinnovabili non tenga ferma il gas” hanno aggiunto i rappresentati di Cigl, Cisl e Uil.
Stop alle trivelle cavallo di battagli del M5s
Lo scontro sulle trivelle va avanti ormai da diversi anni. Il referendum del 17 aprile 2016 segnò una dura sconfitta per il fronte No Triv anche perché l’appuntamento referendario non raggiunse il quorum a causa del boicottaggio della maggior parte delle forze politiche italiane, compreso il Pd che allora guida il Paese con Matteo Renzi. La vittoria elettorale del M5s ha riacceso la speranza dei comitati No Triv dato che la questione è stata fin dalle origini uno dei cavalli di battaglia più sentiti dal Movimento. Come dimostrato dalla reazione della base al via libera dell’esecutivo a nuove trivellazioni. Protesta che ha spinto i Cinquestelle alla parziale retromarcia e alla soluzione di compromesso con l’alleato leghista che impone lo stop a nuove ricerche per 18 mesi e l’aumento dei canoni di concessione.
Lo scandalo delle royalty italiane
L’importo delle concessioni è stato per anni uno dei principali motivi di contestazione del fronte No Triv. Lo sfruttamento da parte delle compagnie energetiche delle risorse energetiche nazionali è avvenuto quasi a costo zero. Le elaborazioni del Wwf (su dati del Mise) parlano chiaro. Fino al recente aumento dei canoni dell’esecutivo (fino a 25 volte) l’Italia ha imposto royalty per lo sfruttamento dei giacimenti tra le più basse del mondo. Nel 2015 l’importo complessivo è stato di appena 351 milioni di euro. Su un totale di 69 concessioni in mare solo 18 hanno effettivamente pagato una royalty. Per le altre il costo si è azzerato grazie a franchigie e detrazioni fiscali.
La questione ambientale
Sullo sfondo rimane poi la questione ambientale ovvero l’impatto negativo sull’ecosistema marino. Diversi studi divulgati dalle associazioni ambientaliste hanno evidenziato nei giacimenti la presenza di almeno una sostanza inquinante oltre i limiti di legge e l’accumulo di metalli pesanti, come il mercurio, che possono entrare facilmente nella catena alimentare. Problematiche a cui bisogna poi aggiungere i danni alla fauna e alla flora marina. Lo scontro di questi giorni è dunque solamente l’ultimo capitolo di una lunga battaglia che con molta probabilità non si concluderà neanche con gli ormai probabili ricorsi che le compagnie presenteranno contro il governo. – [Tiscali.it]
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