
26/02/2019 – In questi mesi si sta sviluppando un acceso dibattito sul regionalismo differenziato cioè in merito all’attuazione dell’articolo 116, III comma della Costituzione, il quale prevede che le Regioni possano ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia” in una serie di materie, tra cui quelle che rappresentano il cuore dello Stato sociale, come sanità e istruzione. Si tratta di una disposizione che non era contenuta nel testo originario della Costituzione del 1948 ma che è stata inserita in Costituzione nel 2001, senza neppure un adeguato dibattito, nell’ambito della maldestra riscrittura del Titolo V, che ci ha consegnato un assetto dei poteri locali che è diventato un vero e proprio “caos”, cui solo una saggia e opportuna giurisprudenza della Corte costituzionale ha messo, in qualche modo, argine.
La politica, sia di centro-destra che di centro-sinistra, ha più volte cercato di correggere il Titolo V del 2001: oltre a varie proposte governative e parlamentari, due sono stati i disegni di legge che sono confluiti in due proposte approvate dal parlamento che avevano l’obiettivo di revisionare complessivamente la Costituzione. Come è noto, entrambe le proposte sono state bocciate dagli elettori nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016, sebbene proprio il tema della revisione del Titolo V, affrontato in entrambe, rappresentasse l’aspetto su cui si registrava il più diffuso consenso.
Il tema della modifica del Titolo V dovrebbe, pertanto, continuare a rappresentare una priorità per il Paese, tante sono le irrazionalità, le incongruenze, le oscurità del testo, che si sommano a una impostazione generale che collide in più punti con l’impianto della Costituzione repubblicana; tuttavia, la nuova maggioranza ha eliminato la questione dall’agenda politica. Così, nel corso degli ultimi tempi, si sono moltiplicate le iniziative volte a dare attuazione alla menzionata clausola di differenziazione, che ha rappresentato uno dei punti più controversi e problematici dell’intera novella del 2001, tanto che essa era stata del tutto cancellata dai due citati disegni di legge costituzionale.
A dire il vero, il processo di attuazione dell’articolo 116, III comma della Costituzione è cominciato sul finire della scorsa legislatura, dopo lo svolgimento di due referendum consultivi che si sono tenuti in Lombardia e in Veneto provocatoriamente il 22 ottobre 2017, cioè nel 151° anniversario della votazione popolare sull’unità d’Italia, per sottolineare, come notava il presidente della Regione Veneto in un comunicato dell’aprile 2017, che questo referendum doveva rappresentare “una risposta corale dei veneti al plebiscito del 1866“.
Il 28 febbraio 2018, cioè a soli quattro giorni dalla data fissata per le elezioni politiche, il governo Gentiloni stipulò ben tre accordi preliminari con le due citate Regioni, cui si aggiunse anche l’EmiliaRomagna. Accordi che sono stati stigmatizzati da GianfrancoViesti, in virtù dei criteri previsti per il finanziamento delle nuove funzioni, come la “secessione dei ricchi“, formula ripresa anche da costituzionalisti come Massimo Villone per mettere in rilievo i pericoli di una simile proposta dal punto dell’unità della Repubblica. – [IlFattoQuotidiano.it]
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Lo scenario che descrivono i principali centri di ricerca da Svimez e Fondazione Curella-Diste, a Confindustria, dalla Confcommercio a Confartigianato, solo per riferirsi ai più recenti, evidenziano l’aggravamento, soprattutto qualitativo, del divario tra il Nord ed il Sud del Paese.
Una cesura che evidenzia un Paese diviso (emigrazione intellettuale, marginalizzazione dell’istruzione e della formazione, isolamento culturale, desertificazione imprenditoriale, invecchiamento, spopolamento, in particolare delle aree interne, accentuazione del dissesto idrogeologico, rarefazione e dequalificazione dei trasporti etc.). E vale la pena sottolineare che i flebili segnali di crescita rinviano al 2027 la possibilità di completare il recupero di quanto perduto durante la crisi 2007-12.
La Banca d’Italia nell’ultimo Rapporto sull’economia delle regioni italiane nel 2017 evidenzia che il PIL nel Sud, lo scorso anno, era inferiore di circa il 9% rispetto al periodo pre-crisi; la contrazione era oltre due volte quella del Centro Nord. I flussi migratori dal Mezzogiorno coinvolgono in misura crescente individui laureati, impoverendo così la dotazione di capitale umano e le prospettive future di sviluppo dell’area.
In questo scenario la Lega e le regioni del Nord premono per ottenere il regionalismo differenziato previsto dall’art. 116 della Costituzione. Il vicepresidente della Regione e assessore all’Economia Gaetano Armao ritiene che tale richiesta non danneggerà la Sicilia, quindi si dichiara d’accordo “se contestualmente troveranno riconoscimento, così come ha sollecitato il Governo regionale, le previsioni dello Statuto e la contemporanea attivazione degli strumenti di perequazione fiscale ed infrastrutturale previsti dalla stessa Costituzione e dai Trattati UE, nonché dalla disciplina sul federalismo fiscale. La Sicilia – ribadisce Armao – lo sostiene da mesi al tavolo della Conferenza delle Regioni”.
Dalla Sicilia quindi un gesto di apertura, purché l’evoluzione dell’ordinamento sia accompagnata dal pieno riconoscimento delle competenze finanziarie della Sicilia, fulcro di un’autonomia che attraverso profonde riforme deve divenire ancor più responsabile ed efficiente, della condizione di insularità nonché dalle richiamate misure di riequilibrio e coesione. – [LEcodelSud.it]
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