Quando Sallusti e gli altri strillavano: “Macché chiudere, lasciateci lavorare”

13/06/2020 – Ora a destra è tutta una ola, un’esultanza sguaiata per l’interrogatorio di Giuseppe Conte. “Il premier in ginocchio dai pm”, titolava ieri Libero: “Giuseppe deve rispondere della mancata zona rossa intorno a Bergamo”. Il Giornale di Sallusti scrive di una “Carta che inguaia il governo”, la dimostrazione che il Viminale non autorizzò i posti di blocco pronti a essere allestiti attorno ai primi focolai bergamaschi. E pure La Verità di Belpietro si esalta: “Conte ha bisogno di un avvocato”.

Sulle responsabilità politiche per la diffusione del virus è legittimo avere un’opinione (possibilmente senza ignorare i fatti). Meno legittimo è avere un’opinione diversa ogni settimana, come i direttori dei quotidiani di area salviniana. Oggi fanno il giro delle tv per dire che la Bergamasca doveva essere chiusa prima. Ma quando era il momento di chiudere, invece, accarezzavano le proteste di Confindustria e dei settori produttivi: quelli che volevano restare aperti a oltranza. E scrivevano questo.

Il Giornale, 28 febbraio. Titolone bold: “Isolato Conte. Il Nord riparte”. Catenaccio: “Riaprono musei e duomo, scuole in forse”. Il virus era arrivato in Italia una settimana prima, il 21 febbraio. Nei giorni successivi erano arrivate le prime chiusure e le zone “gialle” a Milano, Torino, Veneto e mezzo nord. A una settimana dal “paziente zero”, Sallusti si è già stufato. Altro che chiudere: il premier è finalmente lasciato solo in questa idea malsana, il Nord può riaprire. Nel suo editoriale il direttore è assertivo: “Il Paese non è fragile. Chi lo guida invece sì”. La soluzione: “Adesso bisogna velocemente andare oltre e tornare alla piena normalità, che è poi l’unica ricetta per sconfiggere paure irrazionali e falsi allarmismi”. Un vero profeta.

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Libero, 28 febbraio. Titolone: “La normalità è vicina” (come no!). Occhiello rosso: “Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Il pezzo principale è firmato Renato Farina, alias “agente Betulla”: “Non è la peste, è un’influenza”. E ancora: “Non montiamogli la testa a questo Coronavirus. Se ha la corona non è quella del re, e neanche quella del rosario, ma è un pirla di virus qualsiasi”. Due volte profeta. Nella stessa edizione c’è anche un prezioso fondo del direttore Vittorio Feltri, dal titolo: “Quando per paura di avere l’Aids ci si ammazzava”.

Libero, 27 febbraio. Il giorno prima il quotidiano di Feltri aveva una linea ancora più pirotecnica. Titolo: “Virus, ora si esagera”. Occhiello: “Diamoci tutti una calmata”. Catenaccio: “Non possiamo rinunciare a vivere per la paura di morire. I pochi deceduti erano soggetti debilitati, gli altri contagiati guariscono in fretta. Non ha senso penalizzare ogni attività”.

Ricordiamolo: sono gli stessi che oggi dicono che il governo avrebbe dovuto chiudere tutto prima.

La Verità, 27 febbraio. Anche Belpietro attacca il governo che con le prime chiusure e una “dissennata gestione della crisi, provoca danni economici ingenti e ci pone nella incredibile posizione di ‘untori’”.

Libero, 1 marzo. Qui siamo in pieno delirio alcolico. Titolo: “Reclusione continua”. Occhiello: “Il virus è una condanna”. Editoriale di Feltri: “Ma quale crisi? Facciamo finta che sia Ferragosto”.

Il Giornale, 2 marzo. Titolone in prima: “Non c’è più tempo. Fate presto”. Il catenaccio è sull’ “ira degli imprenditori”. Sallusti spiega nell’editoriale: “Pensare di salvare lo Stato e lasciar morire l’economia è pura utopia. Semmai è vero l’inverso. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà”.

Libero, 2 marzo. Titolo: “Lasciateci lavorare”. Occhiello: “Pressante richiesta al governo”. Catenaccio: “Dopo i veneti anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Insomma, come diceva Salvini in quei giorni: riaprire, riaprire, riaprire.

Il Giornale, 5 marzo. Titolone: “Sanno solo chiudere”. Ah, ecco. Perché ora dicono il contrario. – da [IlF.Q. di Tommaso Rodano]
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